mercoledì 12 dicembre 2018

"Sovrapposizionismo" e nuove strategie visuali


  Ikonemi / Bab / A place to live / Sifest 2018   

Da ormai qualche lustro frequentando festival e gallerie fotografiche è inevitabile ritrovarsi di fronte a nuove forme di presentazione e installazione delle fotografie, rese più facilmente praticabili dalle nuove tecnologie di stampa digitale (grandi formati,  stampa su quasi ogni tipo di supporto ecc.), e dall'ingresso della fotografia a pieno titolo come uno dei linguaggi privilegiati dell'arte contemporanea (contaminazioni della fotografia con pittura, scultura, video, intallazioni ecc). Su tutte ultimamente fa tendenza quella che per comodità di sintesi ho denominato sovrapposizionismo, ricollegandomi in maniera un po' ironica ai grandi "ismi" del contemporaneo.

In pratica si tratta di un tipo di allestimento (generalmente a parete) delle fotografie in cui alcune immagini (generalmente più piccole) si sovrappongono totalmente o parzialmente a delle fotografie più grandi che fungono da background. Le varianti posso essere molte: con le immagini background con o senza cornice e/o incollate direttamente alla parete (wallpaper) e immagini sovrapposte spesso incorniciate o con montaggi in rilievo e così via.

Al di là della moda, abbastanza diffusa negli ultimi  tempi soprattutto fra i giovani fotografi e curatori, è interessante interrogarsi su quelle che possono essere le motivazioni (non solo tecniche, ma anche filosofiche, operative e concettuali) che hanno fatto nascere e sviluppare questo tipo di soluzione espositiva, che nei casi più riusciti ed esteticamente funzionali contribuisce alla creazione di interessanti effetti visivi. La ricerca ovviamente è estesa a tutti i lettori di questo Blog che vorranno contribuire con i loro commenti.

Da parte mia ritengo che per porsi queste domande sia necessario innanzitutto considerare quali sono i settori di ricerca fotografica dove questa pratica è maggiormente riscontrabile. E in questo senso individuerei  da un lato la fotografia sperimentale (identificando con questo termine generico un' ampia gamma di mezzi e procedure di riflessione sulla complessità del linguaggio fotografico contemporaneo e la sua ibridazione con altri media, in particolare la scultura e l'installazione), ma anche quella neo o post documentaria e, infine, quella fotografia intimista, diaristica, familiare, che caratterizza molte ricerche attuali.

Analizzando questi settori direi che  il denominatore comune di questi lavori, che determinano o quanto meno influenzano la necessità di un ricorso a procedure espositive sovrapposizioniste,  mi pare sia  la complessità di un'indagine che utilizza e necessita di linguaggi differenziati, e quindi più livelli di lettura, nell'indagine dei temi per potersi al meglio esprimersi. Ovvero, spiegato altrimenti, il confluire nella progettualità autoriale di: 1) diversi livelli di lettura e di interpretazione (realistico/immaginario, oggettivo/evocativo), 2) di differenti generi (paesaggio/still life/ritratto) e stili fotografici (documentario, narrativo ecc), e infine 3) di materiali visivi di diversa origine e/o produzione (fotografie di archivio, immagini trovate, nuove produzioni / immagini analogiche e/o digitali, documenti, disegni, illustrazioni, mappe, video, ecc). 

Personalmente ritengo, insomma, che solo la presenza di questa metodologia di ricerca possa giustificare il ricorso a una strutturazione espositiva stratificata, in cui i livelli estetico-interpretativi si sovrappongono, si ibridano e si contaminano, configurando, in modalità di installazione, la complessità del contributo visuale nella produzione del senso.

lunedì 26 novembre 2018

Fenomelogia del lampo: appunti per una storia ed estetica del flash

Sandro Bini, Firenze 2011

In principio fu l'incendiario magnesio, quello che il buon Jacob Riis, pioniere della fotografia sociale americana, usò a fine '800 per illuminare i tuguri degli immigrati a Ellis Island a New York, ma che servì anche ai fotografi ambulanti per i ritratti familiari. Poi vennero le lampande usa e getta dell'ingombrante Speed Graphic di Weegee per illuminare la "naked city" ovvero la New York del crimine e dei quartieri popolari degli anni 40, una luce forte e impietosa sull'altra faccia  del sogno americano. Nel dopoguerra e nei mitici anni '60  il flash elettronico incominciò a essere usato dalla fotografia di moda e in quella pubblcitaria per fotografare istantaneamente e fulgidamente in studio, oltre alle modelle, i volti di personaggi e star del cinema e dello spettacolo, e oggetti da desiderare e comprare. Il flash portatile servì invece ai  paparazzi per rubare e vendere ai tabloid popolari la vita di divi e delle celebrità, e ai fotografi matrimonialisti e di cerimonia (ma anche ai fotoamatori e ai reporter) per immortalare nei grandi eventi il ricordo e la memoria sociale e familiare. Ma ricordiamo anche che, più o meno negli stessi anni,  il "flash di schiarita" usato da Diane Arbus nei suoi ritratti di strada,  luce straniante, isolante e artificiale su un'umanità ai margini della società dei consumi. Poi arrivò nei decenni successivi l'utilizzo del flash di Bruce Gilden (e altri dopo di lui) nella fotografia di strada, ad evidenziare con il lampo energy, anxiety & strees  di una vita urbana sempre più frenetica ed alienata. Infine ecco  a partire dagli anni '90 la luce flash usata da fotografi-artisti come Jeff Wall, Gregory Crewdson e seguaci nei loro approcci  postdocumentari, dove l'uso della luce artificiale in esterni non ha più nessuna funzione tecnico-pratica, ma unicamente estetica e concettuale, con i suoi rimandi alla fiction (teatro, televisione, cinema) e ad una società sempre più artificiale e spettacolarizzata o da altri artisti in cui la ricerca staged si sposta decisamente verso ambiti onirici, fantastici o surreali.

La luce flash quindi, inventata e utilizzata per la necessità tecnica (almeno fino all'arrivo del digitale) di illuminare e dare visibilità ad esterni notturni o interni poco illuminati, è stata utilizzata dalla fotografia documentaria e sociale e nel reportage, oppure per fotografare divi e celebrità nella costruzione di un immaginario di massa nella fotografia di moda, pubblicitaria e di gossip, ma anche da quella fotoamatoriale e di massa,  per celebrare e conservare  momenti importanti della vita sociale e familiare Questo tipo di luce, insomma, ha costruito nel tempo una sua estetica e una sua storia, che viaggia parallela a quella della fotografia e delle sue diverse pratiche. Il suo utilizzo oggi, nella fotografia contemporanea, sempre meno tecnicamente giustificato (almeno nella fotografia in esterni), riguarda quindi solo e unicamente precise scelte estetiche e di linguaggio, che rimandano alle sue precedenti forme storiche di utilizzo e a nuove possibilità di espressione e di ricerca  nei suoi differenti ambiti.

Sostanzialmente, a mio parere, due sono le estetiche del flash che oggi si oppongono, si confrontano e sempre più spesso si confondono: quella fotorealistica che si basa  sulla storia e la tradizione del suo utilizzo nella fotografia documentaria e sociale e nel reportage (ma anche nella fotografia di massa o social photography), per la quale la luce artificiale del flash finisce per assumere paradossalmente un cifra "realistica" (che fondamentalmente si basa oggi su una estetica snapshot e/o smartshot collegata quindi anche alla condivisione on line), e quella fiction (teatrale, cinematografica e televisivo/pubblicitaria) che si fonda invece sull'esperienza della fotografia professionale di moda e pubblicitaria e della cosiddetta staged photography artistica contemporanea, dove la luce artificiale fornita dal flash ha funzioni fondamentalmente opposte: ovvero viene utilizzata o in chiave di estraneazione e/o di artificio ironico-critico, oppure in funzione onirica o surreale, a seconda che la ricerca dei fotografi si focalizzi su intenti socioantropologici o si confronti col campo dell'immaginario.

sabato 1 settembre 2018

Vertical framing e nuove tecnologie visuali


© Gian Marco Sanna, Malagrotta (2017)

Non ho dati statistici alla mano (sarebbero oltremodo interessanti) solo esperienze e sensazioni da "addetto ai lavori" e qualche scambio di opinioni fra amici colleghi, ma mi sembra che l'inquadratura verticale stia prendendo il sopravvento, fra le nuove generazioni di fotografi, su quella orizzontale, divenendo una vera a propria tendenza. Le ragioni di questa predilezione possono essere molteplici e complesse e credo possa essere interessante cercare di indagarne almeno un paio, lasciando come sempre ai lettori e ai più esperti la possibilità di allargare e approfondire la ricerca.

La prima cosa che viene in mente ovviamente è la straordinaria diffusione degli smartphone dotati di video e fotocamera integrati,  oggetti tecnologici che ci accompagnano durante tutta la nostra giornata, che con la loro struttura e manualità prevalentemente verticale hanno sicuramente favorito e condizionato il massiccio rilancio di questa tipologia di inquadratura e di sguardo nella fotografia e  nel video (dove ci sono addirittura concorsi e festival dedicati). La seconda, ovviamente collegata alla prima, sono le Stories di Instagram e di Facebook  (fotografie o video pubblicati sui rispettivi social per solo 24 ore e con una durata di visualizzazione di 15 secondi) molto popolari, sopratutto fra i più giovani, in cui è preferibile utilizzare un framing verticale nei formati di acquisizione delle immagini (foto e/o video) per sfruttare al massimo la struttura predefinita che è per l'appunto verticale, e riempire in sostanza tutto lo spazio disponibile.

Se i media, come diceva Friedrich Kittler, sono la "situazione" in cui operiamo, il vertical framing incoraggiato dagli smartphone e dalle Storie di Instagram e Facebook si sta di fatto imponendo come struttura visiva  privilegiata del contemporaneo, fino a divenire un vero e proprio fenomeno di moda. Sarebbe allora interessante capire come questa verticalità  (del resto già ampiamente utilizzata, almeno in fotografia, anche prima dell'avvento degli smartphone) influisca sulla nostra percezione e quindi sulla nostra visione del mondo e quale tipo di influenze e conseguenze possa comportare.

Lasciando ai più esperti eventuali approfondimenti, da parte mia mi limiterò a ribadire e sottolineare una ovvia considerazione di ordine tecnico e geometrico: la verticalità dell'inquadratura  sposta, anzi ribalta, l'ampiezza dell'angolo di campo dell'obbiettivo da una prospettiva orizzontale ad una appunto verticale e in questa operazione l'orizzonte (fuori e dentro metafora) di fatto si riduce in ampiezza. Se, anche senza stare a scomodare la piscoanalisi e (ovviamente senza azzardare alcun giudizio di merito o gerarchia di valori) colleghiamo le rispettive simbologie (verticale e orizzontale) alla visione  biomediatica, diventa un gioco forse non troppo azzardato associare implicazioni cognitive, filosofiche, politiche, sociali alla struttura della cornice visiva che, in un determinato momento storico e ambiente, adottiamo e privilegiamo.

Un ringraziamento a Gian Marco Sanna per la gentile concessione di una sua foto dal suo libro Malagrotta (Urbanautica 2017) e a Simone D'Angelo per gli stimolanti scambi di idee sul tema.

venerdì 1 giugno 2018

In the cage: il genere fotografico da gabbia a possibilità


Sandro Bini,  Cascine del Riccio 2015

Molti fotografi contemporanei considerano i tradizionali generi fotografici come una prigione creativa di cui liberarsi. Se il riferimento è alla manualistica popolare con definizioni stereotipate e regole rigide non possiamo che essere d'accordo, anche se considerare i generi fotografici una prigione significa di fatto accettare e avallare questa vulgata, mentre credo che andrebbe ripensato il genere (e non solo quello fotografico) storicamente come un organismo in costante evoluzione e trasformazione.

Ciò non significa che non si possa o non si deva nei propri progetti mischiare le carte o ibridare i generi e i linguaggi se necessario, anzi tutt'altro, ma annullare lo spazio di senso e di aspettativa che il genere comporta significa di fatto rischiare di annullare non solo la sua tradizione, ma anche lo spazio della possibile  sperimentazione ed evoluzione delle sue strutture e dei suoi linguaggi. Ne abbiamo ottimi esempi in letteratura e nel cinema (basti pensare alla fantascienza o al giallo), in pittura (paesaggio, ritratto, natura morta) e credo anche in fotografia (mi viene in mente Man Ray per quanto ha creato e innovato con lo still life, il ritratto e il nudo).

Che poi il crossover a tutti i costi rischi anche questo di diventare una gabbia creativa è un'ulteriore aspetto su cui invito a riflettere. La formuletta contemporanea, ampiamente praticata e divulgata, di paesaggio-still life-ritratto di certa new documentary o la sovrabbondanza di immagini evocativo-emotive nella narrazione intimista e nel nuovo reportage, rischiano di diventare altrettanti stereotipi e clichè visivi che finiscono di fatto con l'annoiare.

Il genere nella prospettiva che ho cercato di risignificare potrebbe invece costituire una possibilità creativa alternativa, pur all'interno di quei limiti che tutti gli riconosciamo, ma che potremmo provare a sfruttare per liberare la nostra immaginazione, perchè molto spesso è proprio all'interno di limiti dati o (auto)imposti che possono nascere nuove straordinarie possibilità.