martedì 6 dicembre 2016

Una irreversibile necessità: imparare dagli usi comuni

© Luca Moretti, My small world (2015)

Secondo i più importanti studi sulla fotografia contemporanea, tradotti anche in Italia (Cotton, Campany, Bajac, Poivert, Gunthert) è ormai a partire degli anni '60 del Novecento (ma direi anche da molto prima, forse dall'avvento a fine Ottocento degli apparecchi portatili e delle pellicole in rullo), che in nome di una naturale evoluzione democratica insita nel DNA tecnologico del mezzo (vedi Benjamin, McLuhan & C) che la pratica fotoamatoriale influenza in modo determinante quella professionale e autoriale. 

La resistenza elitaria ai fenomeni di democrazia sociale e di rinnovamento tecnologico e di linguaggio portati dalla fotografia di massa (sopratutto con la recente rivoluzione digitale e le pratiche web 2.0 della fotografia condivisa) è stato un fenomeno comune che, dal Pittorialismo in poi, ha sempre avuto in se qualcosa di tragicamente eroico e insieme di pateticamente romantico. Rinchiuso nelle torri d'avorio della fotografia d'autore e d'arte qualcuno, per distinguersi aristocraticamente dalla massa, ha da sempre rischiato di perdere il contatto con la realtà e finire irrimediabilmente con lo sclerotizzare pratiche, visioni e opinioni, mentre i fotografi e gli studiosi più illuminati e democratici, dopo un normale più o meno breve periodo di "resistenza" rispetto alle novità e alle aperture, hanno sempre cercato di comprendere, adattarsi e “piegare” a fini comunicativi, culturali e artistici il cambiamento tecnologico e sociale in atto. Da sempre se la sono cavata  forse  meglio i professionisti che devono fare i conti con le reali e dure leggi del mercato e per i quali le capacità di comprensione e di adattamento alle nuove tecnologie e alle nuove pratiche diventano anche necessità economica di resistenza e di sussistenza.

Se i fotografi (professionisti o autori) hanno quindi oggi un dovere e un ruolo  è  quindi, sempre e prima di tutto, quello di studiare e di comprendere l'evoluzione tecnologica e sociale dei meccanismi della visone, della pubblicazione e condivisione fotografica nella società mediatica contemporanea, ovvero cercare di capire le nuove funzioni e i nuovi ruoli sociali e culturali delle immagini, dei loro produttori e degli strumenti atti a produrle, diffonderle e condividerle.  Il passo successivo necessario è poi a mio parere (e qui entro in una sfera necessariamente personale e “militante”) quello di elaborare un pensiero e una produzione fotografica che sebbene "qualitativa" e interessante sia il più possibile democratica e divulgativa, ovvero orientata e rivolta a tutti e non a pochi, capace di dialogare con le differenti pratiche e funzioni del fotografico, sfuggire alla deriva autorefernziale degli adetti ai lavori e di promuovere e far circolare immagini che siano in  grado di coinvolgere ed “informare” e perché no “educare” a vario titolo e grado tutti gli interpreti e tutti i protagonisti del fenomeno (ovvero ormai qualsiasi comune cittadino dotato di uno smartphone con fotocamera), insomma un pensiero e una produzione in grado di incidere profondamente, ma in maniera diffusa e trasversale, nella sfera della comunicazione e della informazione sociale e culturale contemporanee.

Pensare oggi di essere come professionisti, autori o anche fotoamatori-evoluti in qualche modo i soli o  gli unici a detenere il know how, il governo o il controllo di cosa sia o non sia oggi “la Fotografia” (con la famosa e orami ridicola effe maiuscola) sarebbe un errore di presunzione e di prospettiva davvero fatale. Chiudersi  in una autoreferenzialimso corporativistico o di nicchia a difesa dei propri presunti privilegi professionali e intellettuali è ormai davvero privo di ogni logica, senso e aggiungerei anche di ogni realistica prospettiva economica e di mercato. Nell’era dell’"immagine condivisa" (Gunthert) le funzioni sociali ed economiche della fotografia si stanno trasformando ancora una volta in maniera democratica (produzione, accessi, utilizzi, pubblicazioni, diffusioni, condivisioni), come fotografi (professionisti, autori o fotoamatori-evoluti) studiosi, docenti di fotografia, da tutte le più comuni pratiche di utilizzo e diffusione sociale del mezzo abbiamo poco da storcere il naso, ma sopratutto da studiare, riflettere e imparare.

Un grazie a Luca Moretti per la gentile concessione della immagine pubblicata in questo articolo.

lunedì 21 novembre 2016

Per una politica della fotografia: il caso Deaphoto



Sandro Bini >  I Confini della Città - Argingrosso 2002

Dopo un bel po’ di tempo torno a scrivere su questo mio blog, che tanto mi ha dato come spazio di riflessione ed elaborazione personale e spero forse qualcosa anche a qualcuno che nel tempo lo ha letto, seguito e magari commentato. Il Blog non ha mai avuto una pubblicazione cadenzata e costante. Ma va bene così!

Questo articolo, il cui titolo parafrasa un celebre saggio sulla fotografia a me caro, nasce dall’urgenza di caldeggiare la necessità di una strategia politica nella propria pratica fotografica e culturale. Non avendo ambizioni o forse strumenti per posizionarmi su un piano generale, farò anch'io per una volta il "tiramulisnita" raccontandovi del caso Deaphoto  Associazione Culturale della quale sono il fondatore e il Direttore da più di sedici anni.

Con Deaphoto abbiamo scelto una posizione defilata, se vogliamo un po' autarchica e underground. Abbiamo scelto di essere fuori "dai giri giusti", dai grandi nomi, dalle clientele politiche, dai favori di scambio, dalle mode, dai trend. Portiamo avanti con dedizione e costanza da sedici anni la nostra ricerca che può piacere o meno ma che credo abbia motivazioni autentiche e profonde. Siamo sempre stati aperti al dialogo, allo scambio, alle collaborazioni con chi condivide le nostre scelte e le nostre visioni. Siamo disponibili a lavorare duramente controcorrente, ma con qualità, per difendere la nostra idea di fotografia "popolare" e divulgativa, contro le visioni elitarie e autoreferenziali dei pochi, a favore di visioni sociali aperte e accessibili a tutti. In quanto crediamo nella fotografia come formidabile strumento culturale di relazione e di conoscenza, nella didattica abbiamo portato avanti una strategia low cost per rendere possibile a tutti la partecipazione ai nostri corsi e workshop nella speranza di rendere più comprensibile al maggior numero di persone possibile la complessità del linguaggio fotografico. Nella progettualità ci occupiamo soprattutto del territorio e  della sua socialità privilegiando le aree periferiche e marginali, dando vita a progetti pluriennali molti dei quali ancora in corso. Dal 2010 pubblichiamo un webmagazine  Clic.hè per dare spazio alle visioni degli altri fotografi che, sollecitati su specifici temi di ricerca a noi cari, tanto ci hanno insegnato. Da otto anni promoviamo l’editoria fotografica con le “Scritture di luce” e diamo spazio alle voci dei fotografi con “Parole di luce”, il nostro programma radio, o incontrandoli di persona alle “Colazioni con i fotografi, esperienze entrambe giunte alla loro terza edizione. Speriamo in questo modo di aver contribuito alla cultura fotografica e alla sua divulgazione fra la gente e di aver reso per questo un servizio alla collettività. Con tutti gli strumenti con cui nel tempo e con tanto lavoro ci siamo dotati pensiamo di continuare ancora con lo stesso spirito divulgativo e di approfondimento che fin qui ci ha guidato e di incontrare e confrontarci con chi sarà interessato alle nostre iniziative.


martedì 24 maggio 2016

Trovate, cercate, costruite: fenomenologia genetica delle immagini fotografiche


© Sandro Bini > Senza Titolo 2016

Perdonatemi ma il virus didattico, con tutte le sue inevitabili schematizzazioni di comodo, non mi abbandona. Come nascono le fotografie? Si tratta di un tentativo di analisi pratico-fenomenologica, che poi ovviamente  rintraccia generi e stili più congeniali. Individuo tre dinamiche genetiche: le fotografie trovate, le fotografie cercate e le fotografie costruite. Premetto che talvolta si trova mentre si cerca (la chiamano serendipity), si cerca dopo aver trovato (non la chiamano, troviamogli un nome), si trova o si cerca mentre si costruisce (idem). Varianti, variabili, giochi combinatori cari a Calvino, Queneau e a me pure. Cominciamo!

Fotografie trovate, niente a che fare con la found photography (fotografie più o meno anonime recuperate per strada, nei rifiuti, nei mercatini, on line e valorizzate in apposito contesto artistico-concettuale), ma piuttosto doni del cielo o del caso. Si vaga con le gambe e/o con lo sguardo, non si deve cercare niente di preciso, poi eccolà la. Ma è l'immagine che viene a trovarci, come sostiene Baudrillard, o siamo noi che la troviamo? Pratiche consigliate: flanerie, derive urbane, fotografia inconsapevole (finalmente!). Spazio al corpo ai sensi, alle sollecitazioni dell'ambiente, non pensare (almeno prima di scattare e mentre si scatta) lasciarsi andare. Spesso capita che una fotografia trovata, spinga a ricercarne di simili e così dai "doni del caso" si passa alle "regole del caso" così care a Willy Ronis ma anche che so a William Klein.

© Duccio Ricciardelli > Tattile Psichico

Fotografie cercate, perdio ho un progetto, un tema, un focus scatto a colpo sicuro! Ma sono sicuro di essere sicuro? Non si sa! Ma almeno da principio faccio finta, perchè mi manca ancora la prova sul campo. Quando cerco la mia immagine o la mia storia spesso la trovo o faccio di tutto per realizzarla. E cavolo ce l'ho in testa! Ma spesso capita che trovi di più o trovi altro, e come la mettiamo? Mi innervosisco per il fallimento al primo test? Ma no dai  risettiamoci... Ecco si la progettualità deve essere così come un giovane corpo: elastica per funzionare. Non è proprio così come vorrei? Che fo sistemo, sposto, modifico in photoshop? Metto in scena? Ci sono limiti etici a tutto questo almeno per il reportage fotogiornalistico o la fotografia documentaria? Per me si per altri anche no, se ne discute tanto... Pratiche consigliate: fotografie per un progetto, una serie, un protfolio a tema, un libro, su dai al lavoro!

© Davide Palmisano > Timeless Persia 2016

Fotografie costruite: allestimento, set, staged photography. Ho l'immagine chiara in testa parto da una idea, una ricerca iconografico-concettuale, un disegno, un bozzetto. Attori, luci, scenografie, costumi, trucco e parrucco, oppure location attentamente scelte e studiate, niente è lasciato al caso sotto la mia accurata regia, tutto è apposto, tutto è sistemato (moda, pubblicità, staged photography) ciak si scatta!. Metto in scena la mia idea, la mia storia, il mio corpo, la mia arte, wow! Poi però capita che sul set qualcosa di imprevisto accade, "uno strappo nel cielo di cartapesta" diceva Pirandello fa irrompere l'imprevista e  intrattabile "realtà", qualcosa di non addomesticabile: la nube che offusca la luce del cielo, un gatto randagio che entra in campo, il vento che agita una tenda... Ecco da parte nostra questo "strappo" ce lo auguriamo! E ci auguriamo soprattutto che anche in questo caso il nostro Autore sia pronto ad accogliere e "sfruttare" certi preziosi suggerimenti mondani per evitare la frigida patinatura del troppo bello, perfetto e simulato.

© Francesca Donatelli > The Others 2012

PS Un ringrazimento a Duccio Ricciadelli, Davide Palmisano e Francesca Donatelli per aver gentilmente concesso l'utilizzo delle loro immagini per questo articolo.

martedì 22 marzo 2016

Immaginazione & flusso: piccola riflessione sui limiti del fotografabile nell'epoca digitale



Sandro Bini, Senza titolo, Aprile 2015

Ok lo abbiamo affermato e verificato. La vera "rivoluzione digitale" in fotografia è quella connessa alla rete e alla diffusione degli smartphone: ovvero la condivisione immediata che alimenta costantemente il flusso di immagini sui social. Ma con la marea di immagini che come uno tzunami gonfia a dismisura questa ondata iconica i limiti del fotografabile si sono davvero ampliati o addirittura dissoltì? O si sono solo resettati in base alla facilità ed economicità della produzione e della condivisione? A parte i noti e comprensibili limiti di censura di molti social, credo che con il "flusso" il fotografabile si sia sicuramente ampliato, ma non siamo ancora alla "foresta democratica". Tendenzialmente a livello di massa si fotografa e si condivide ancora quello che ci fa sembrare fighi e felici come nei precedenti decenni analogici. Anzi sembra quasi che lo scopo principale oggi sia soprattutto quello di suscitare invidia negli altri (lo battezziamo questo fenomeno?). Certamente il repertorio si è parecchio ampliato, non solo i compleanni, le gite e le vacanze, ma anche le cene e gli acquisti, i centri commerciali e altro. Ma a ben vedere, secondo me, questo repertorio è pur sempre socialmente determinato a seconda dei gruppi di appartenenza e di fattori direi "generazionali". Certo adesso c'è chi fotografa e condivide anche le proprie piccole-grandi sventure (la bolletta da pagare, la multa, la gamba fratturata) o i propri stati di emotività (felicità e tristezze copiosamente dispensate in immagine), ma a ben vedere lo si fa per cercare solidarietà e consenso, attirare attenzione subitanea o per far sorridere. E non credo poi che tutto questo venga fatto con totale inconsapevolezza, anzi,  la fotografia anche nei suoi usi sociali e colloquiali più "vernacolari" ha quasi sempre a che fare con la propaganda personale o di gruppo, o se vogliamo essere cool diciamo col personal and social branding / bragging. Insomma con le nuove tecnologie i limiti del fotografabile tendono a coincidere con quelli etici, sociali e culturali del condivisibile e questi ultimi resistono con differenti margini di elasticità per ognuno di noi in base alla propria cultura, appartenenza sociale e generazionale, ma anche a seconda della propria soglia di pudore. "Limiti" di appartenenza, cultura ed etica che sarebbe oltremodo interessante indagare. La via è indicata!

giovedì 7 gennaio 2016

Tennis e fotografia: un paragone d'azzardo

Michelangelo Antonioni, Blow up (1966)

Prologo.
Sabato 12 Settembre 2015 finale US Open Pennetta-Vinci, gli italiani, che con l'avvento e la diffusione delle fotocamere sui cellulari sono ormai un popolo di fotografi, si scoprono anche un popolo di tennisti.

Svolgimento. 
Chi mi conosce un po' meglio sa che rimugino da tempo su di una ipotetica qualche relazione fra tennis e fotografia, si trattava fino ad oggi di una intuizione vaga, non troppo razionalizzata, mi sosteneva in questo azzardo concettuale il finale di un celebre film di Michelangelo Antonioni del 1966 caro ai fotografi "Blow up" in cui il protagonista fashion photographer coinvolto suo malgarado in un possibile delitto abbandona definitivamente le vellità da detective da "prova fotografica" osservando una partita di tennis mimata da alcuni artisti di strada in un parco, tanto da raccogliere una inesistente pallina da tennis e restituirla in campo ai fanstastici giocatori-mimi. Il tennis, la fotografia, la realtà sono solo un gioco? E quali sono le regole? Mi sosteneva in questa balzana idea anche il suocero di un amico che con convinzione sosteneva che due erano le cose che non sopportava nella vita: il tennis e la fotografia! Il suocero-teorico, confesso, che mi aveva piuttosto colpito e inquietato per la fatale analogia tutta in negativo... Il tennis gioco aristocratico e crudele in cui non ogni palla ha lo stesso peso e valore e in cui fino all'ultimo tutto rimane in gioco in cosa assomiglia alla fotografia? Proviamoci: come la fotografia il tennis è un gioco individuale e un po snob, ma non si fa da soli, c'è sempre una controparte, il risultato della partita non dipende solo da noi. Il tennis come la fotografià è un gioco a esclusione: io vinco tu perdi, palla dentro palla fuori, foto dentro foto fuori.  In fotografia come nel tennis non tutti gli scatti hanno la stessa importanza, qualcuno pesa e vale di più, altri molto di meno. Nel tennis come in fotografia il match è sempre aperto, la rimonta sempre possibile, può essere un gioco strepitoso e spettacolare, quanto noioso e avvilente. Nel tennis come in una inquadratura fotografica avviene tutto all'interno di un rettagolo, il resto non conta o meglio non si vede. Ma c'è di più c'è il tabellone! Il tabellone? Si i tabelloni degli incontri sedicesimi, ottavi, quarti, semifinali, teste di serie... Ecco il tabellone a me ricorda il tavolo dell'editing nella sua ferrea logica del dentro o fuori, del testa a testa fra due foto simili e/o altrettanto funzionali, dell'ultima foto inserita nella sequenza che come l'ultima palla può cambiare l'esito di tutta la storia. Ai più sembrerà strano ma per me il tabellone del tennis è il modello didattico e strutturale di quando scelgo le foto e le metto in fila. Tutto qui? O c'è di più? Si c'è di più c'è lo strumento (la racchetta e la fotocamera). Lo strumento che proviamo a cambiare inutlimente quando stiamo perdendo o giochiamo male. E c'è il movimento: quello del giocatore/fotografo nello spazio, il "time" sul click e sulla palla (c'è o non c'è, oggi ce l''hai domani no) il coraggio, la fantasia, la pazienza, la resistenza. C'è la psicologia: sfruttare i momenti buoni, resistere a quelli difficili. "Calma e gesso" consigliava il grande fotoreporter Mario Dondero,  a tutti i fotografi.  Lui si riferiva a un altro sport di precisione fotografica "il biliardo". E allora noi forse non potremmo paragonare il gesso del biliardo alla segatura con cui i tennisti si asciugano la mano sudata per consentirgli un maggior "grip" nell'impugnare la loro arma di rimando? Già fotocamera e racchetta come "strumenti di rimando" un'altra azzardata analogia. Ma attenzione arriva ancora una palla dobbiamo essere attenti e pronti per colpirla con forza o destrezza con la racchetta per mandarla oltre la rete, possibilmente in campo. "Game, partita, incontro", si proprio come quando vediamo un'immagine e dobbiamo rimandarla al di là della "rete" nel rettangolo magico di una fotografia. 

Epilogo.
Anche Thomas il  fotografo protagonista di Blow Up nel 1966 si sente in dovere di restituire una palla immaginaria uscita dal campo, ma  per lui l'oggetto ormai è solo virtuale e lo strumento che usa per "restituirla" è solo il suo corpo. Chiaroveggenza antononiana?