venerdì 11 dicembre 2015

La parte maledetta: quello che i fotografi non dicono, temono o forse non sanno


Sandro Bini, Nothing more of really matter (2005)

Quello che i fotografi non dicono, temono o forse non sanno è che l'atto fotografico è -anche- un "prelievo" , un "salasso", una forma di vampirismo, un delitto sublimato (quasi) perfetto. Quello che i fotografi non dicono, temono o forse non sanno è che l'inquadratura è una soglia, ma anche una gabbia (tu dentro, tu fuori) e l'otturatore è una ghigliottina inesorabile sul tempo (solo questo istante, tutto il resto non è importante). Quello che i fotografi non dicono, temono o forse non sanno è che la fotografia evoca, ma di fatto cancella il fuori campo, cancella gli odori, i rumori, i suoni, è una sottrazione di sensi e di dati (solo il visibile). Quello che i fotografi non dicono, temono o forse non sanno è che la fotografia è una mummia di carta o di pixel illuminati su uno schermo. Quello che i fotografi non dicono, temono o forse non sanno è che se nessuno la guarda la fotografia è morta, che siamo solo noi a (ri)animarla, a dargli una vita, una memoria, una speranza che di fatto in se (come oggetto o accumulo di pixel) non gli appartiene. Quello che i fotografi non dicono, temono o forse non sanno è che sottraiamo alla vita, alla nostra e a quella delle cose e degli altri, frazioni di secondo per depositarli in immagine e avere l'illusione di averli vissuti e poterli ritrovare, mentre in realtà l'abbiamo irrimediabilmente persi. Quello che i fotografi non dicono, forse lo sentono, lo pensano, lo sanno, pochi lo fotografano o lo scrivono. La maggior parte preferisce nascondere la parte oscura che li fa tremare al momento di uno scatto, il "daimon" che li appassiona e li spinge al nichilismo di un gesto ossessivamente reiterato, bello perchè disperato: fermare il tempo. Preferiscono presentarsi (e come biasimarli) unicamente come custodi della vita e della memoria, testimoni del bello, del giusto e del vero, eroi di uno sguardo umano salvifico sul mondo e sulla storia. Ma in ogni caso e con ogni "positivo intento" quella "parte maledetta" che avidamente accumuliamo nei nostri scatti conviene prima o poi conoscerla, affrontarla, mostrarla. Restituirla alla vita, alle cose, agli sguardi degli altri a cui l'abbiamo sottratta -anche ma non solo- per nostro compiacimento e piacevole, crudele diletto.

mercoledì 30 settembre 2015

"Personal photographer": una mitologia personale


sandro bini > myphotolibrary / detail 2013

Dopo l'ultimo mio articoletto che attestava la legittimazione nella prassi sociale dell'utilizzo del termine "fotografo" a qualsiasi fotografante camera munito (smartphone compreso) e nel quale riflettevo come ognuno di noi abbia in testa la sua mitologia del "vero fotografo" spesso poco coinciliabile con quella degli altri, ho ricevuto da più parti sollecitazione ad esprimere la mia personale mitologia, ovvero a elencare i valori che secondo me fanno di un fotografante un "Fotografo". La cosa mi ha solleticato. Un elemento da cui partire, non determinante, ma che non posso disconoscere è la professonalità: la fotografia come mestiere. Fino forse agli anni '90 almeno un fotografo per il senso comune era un professionista, qualcuno che campava con la fotografia, ma non basta! C'erano e ci sono infatti illustri esempi di fotografi non mestieranti riconosciuti come autori. E allora come la mettiamo? Ecco la faccenda della autorialità in fotografia e alquanto intrigante e sibillina. Chi, come e quando si definisce un autore? Chi lo legittima? Imperversano infatti oggi esempi di autolegittimazone o legittimazione di scambio e di gruppo (io legittimo te e tu legittimi me, la logica social del like), ci sono poi gli adetti ai lavori, la cosidetta "community" con le sue tante fazioni che portano ognuna avanti la propria "scuderia", poi ci sono i riconoscimenti, i premi le pubblicazioni qualcosa di relativamente più attendibile. Ma bastano? Ci potrebbe essere poi anche una legittimazione culturale? Ovvero caro fotografo sei veramente preparato? Hai studiato? Sei bravo? Per Efrem Raimondi, sempre affilato e parco con le parole, un fotografo è uno che "fa fotografia", ma mica te lo spiega tanto cosa vuol dire eh... La cosa mi intriga! Cosa significa "fare fotografia"? Interpreto e forse sbaglio, per me fare fotografia, è vivere con la fotografia al proprio centro-decentrato, contribuire a spostarla ogni volta un po' più avanti,  attribuirle senso e speranza, interrogare il mondo e se stessi tramite questo artificio, dagli energia, fatica, tempo, tanto, insomma averci parecchio a che fare. Ecco che la mitologia si connota di senso filosofico ed esistenziale e citando "nientepopodimeno" che  il fu Henri Cartier Bresson posso ben dire che si per un fotografo come lo penso io "la fotografia è un modo di vivere". Se è solo un modo di campare o di apparire mi spiace ma nel mio mito non ci sei dentro!  Ma anche questo fatto chi può certificarlo, se non ognuno per se stesso? Chiudo ancora con una domanda e privo di certezze. Mitologia debole, mitologia liquida figlia dei tempi. Auf wiedershen!

giovedì 3 settembre 2015

Il fotografo: una tipologia liquida

© Sandro Bini, Florence city centre, 2008

Ma chi è oggi un fotografo? Se in un recente articolo ho raccontato la fotografia come un'opinione, tanto più oggi è l'idea di colui che la pratica. Pronunciando o scrivendo questa parola infatti ognuno di noi idealizza il suo "pesonal photographer", con tutta l'annessa mitologia, crediamo di parlare di qualcosa di oggettivo e attendibile, condivisibile da tutti, mentre in realtà piombiamo di nuovo nel più assoluto relativismo soggettivo. Ancora una volta insomma non ci intendiamo! Proviamo allora  un po' sul serio e un pò' per gioco a tracciare una tipologia liquida:

1) Il fotografo è colui che ad ogni livello e grado utilizza un apparecchio fotografico (di qualsiasi tipo), produce, pubblica o condivide immagini. Secondo questa definizione "democratica" oggi più o meno siamo "tutti fotografi". La tipologia liquida prevede però che qualcuno di questi fotografi anche se non professionista (vedi il punto 2) possa essere retribuito occasionalmente (prevalentemente a nero) per la realizzazione di servizi fotografici di vario genere e possa accedere talvolta (quasi sempre senza retribuzione) in ambito artistico o di ricerca (vedi punto 3) se non addirittura nella didattica (circoli fotografici e simili). Sempre più frequente la situazione di persone con lavoro dipendente che svolgano la professione di fotografo in maniera più o meno continuativa come "secondo lavoro" con regolare apertura di partita iva.

2) Il fotografo è un professionista o un artigiano  (sempre più raramente un dipendente) che sbarca il lunario in maniera prevalente se non esclusiva tramite la pratica fotografica. Prove oggettive e inconfutabili di questo status: la partita iva (o il contratto di lavoro o busta paga), la dichiarazione dei redditi. La tipologia liquida può prevede frequenti incursioni nell'ambito della fotografia artistica o di ricerca (quasi sempre non retribuita) o nella didattica (retribuita).

3) Il fotografo è un artista che viene retribuito a vario titolo per la propria ricerca (vendita di foto, mostre, pubblicazioni ecc). Anche in questo caso prove oggettive e inconfutabili di questo status: la partita iva, la dichiarazione dei redditi, il riconoscimento e la pubblica notorietà.  Non escluse incursioni nell'ambito della fotografia commerciale ed editoriale e nella didattica. La tipologia liquida prevede però anche fotografi che pur ottenendo notevoli soddisfazioni in questo ambito di fatto si mantengono attraverso un altro mestiere, anzi direi che in questo settore mi pare oggi la situazione più diffusa.

Da questa piccola analisi emerge come ogni appartenente ad ognuna di queste tipologie liquide sia più o meno socialmente legittimato a dichiararsi fotografo, e come nella pratica di oggi sfumi sempre più la tradizionale distinzione fra fotografo amatoriale e professionista. Quello che colpisce in questa tipologia (che risponde credo di fatto alla situazione attuale, almeno in Italia) è che manchi qualsiasi riferimento ad una preparazione culturale. La cosa non è colpa di chi scrive, ma della situazione legislativa italiana. Di fatto da noi qualsiasi persona  può aprire una partita iva e svolgere la professione di fotografo (sia in ambito artistico  che commerciale ed editoriale) e non è previsto nessun titolo di studio o formazione specifica. Per la mia personale mitologia di fotografo questo dato di fatto ad oggi non è accettabile.

giovedì 27 agosto 2015

Egocentrici e narcisi? Come uscire un po' dal guscio dell’autoreferenzialità




© Andrea Buzzichelli, Le caldane, 2015

A torto o ragione uno dei pregiudizi più comuni sui fotografi è che siano più o meno tutti egocentrici e narcisi. Mi sono chiesto e ho riflettuto sui motivi di questo luogo comune che, come tutti i luoghi comuni, ha le sue ragioni di esistere. Ma più che altro mi sono chiesto quali potrebbero essere le “buone pratiche” per farci uscire almeno un po' dal circuito perverso dell’autoreferenzialità che alimenta questo giudizio. Già negli ultimi decenni la nascita dei collettivi fotografici ha sfidato e sfatato la mitologia del fotografo come cavaliere solitario e rilanciato l’idea di comunità collettiva dove il "noi" possa bilanciare l’io, le pratiche del crowdfounding hanno promosso poi nelle nuove generazioni un nuovo concetto di solidarietà  condivisa per la produzione di progetti espositivi ed editoriali e sono nati  progetti collettivi direttamente da esperienze di rete. Ma nel più ordinario tran tran quotidiano della pubblicazione e condivisione di immagini fotografiche sui social credo potrebbe essere buona pratica comune condividere con regolarità ognuno sul proprio profilo le foto e i progetti di quei fotografi che davvero ci piacciono e che davvero apprezziamo, magari anche una volta ogni tanto, per togliersi un po’ di autoreferenzialità di dosso. Non dovremmo però aspettarci nessun tipo di “ritorno”, insomma la buona pratica non deve assolutamente diventare “condivisione di scambio”, come purtroppo sta succedendo in parte per i famigerati “like”, ma possono nascere "affinità elettive" capaci di stimolare il confronto, il dibattito e perchè no la progettualità comune. Io, nel mio piccolo, ho iniziato da qualche settimana a condividere sul mio profilo FB immagini di autori e colleghi i più o meno noti postate sulla timeline di FB, ne è nata una sorta di “collezione virtuale” rintracciabile all’hastag #altrifotografi, rivederla ogni tanto fa davvero piacere: alimenta un virtuoso confronto e mi ricorda che non esisto solo io e le mie fotografie. Un ringraziamento ad Andrea Buzzichelli per la foto copertina di questo articolo che fa parte di questa nuova raccolta. Buone pratiche a tutti!

giovedì 20 agosto 2015

La fotografia? Un'opinione. Piccolo manifesto per un relativismo fotografico


Sandro Bini, my opinion,  firenze 2015

Ma insomma dopo tanto dibattere che cos'è la fotografia? Lasciando da parte le questioni tecniche altrettanto spinose, se circoscriviamo il campo all'irrisolto e irrisolvibile problema filosofico (ontologico o fenomenologico che sia) ecco direi che la fotografia è un'opinione, nel senso pirandelliano che ognuno di noi  ad ogni livello e grado quando parla di fotografia fa riferimento, in rapporto alla propria cultura e appartenza, a un orizzonte sentimentale e culturale più o meno precisato e ad un altrettanto più o meno vago reportorio visivo, suffciente però a differenziarlo in maniera più o meno netta da quello di tutti coloro che gli stanno accanto. Capita spesso infatti nei dibattiti on line e non solo che qualsiasi questione posta venga riportata fatalmente e immediatamente in questa bolla soggettiva o di "casta" in cui si dimentica troppo spesso che la fotografia  non è solo quella "come la pensiamo, la facciamo e la vorremmo noi" ma, volenti o nolenti, è anche quella "come la pensano,  la fanno e  la vorrebbero gli altri". E allora apriti cielo! Il  fraintendimento è immediato, la polemica, spesso feroce, in agguato. Il relativismo pirandelliano viene infatti poco praticato da chi più o meno appassionato o dentro le questioni professionali e "artistiche" del medium deve difendere "La Fotografia", che poi non è altro che quella che lui crede che sia o che perlomeno dovrebbe essere. Troppo spesso il fervore proselitista e oserei dire missionario non lascia scampo: gli altri si devono convertire alla nostra fede! E questo fervore ovviamente è tanto più forte quanto è più forte il coinvolgimento professionale e sentimentale. Si pensa subito che qualsiasi opinione estetica o disamina antropologico-sociale del fenomeno fotografico condotta a vario titolo e grado da vari studiosi e intellettuali o da semplici amici, colleghi e conoscenti debba essere per forza preferibilmente indirizzata a "noi", all'aristorazia del fotografico, ai depositari della "fede", a questa elite del resto ampiamente differenziata e divisa in tante parrocchie, unica in grado di legittimare o meno i contenuti delle opinioni espresse. Solo i Fotografi con la F maiuscola hanno diritto di parola e di replica perchè la fotografia loro la "fanno" (anche se sarebbe più corretto dire la prendono) e sopratutto la fanno come si dovrebbe fare... E tutti gli altri che magari a vario titolo e grado la studiano e la analizzano nelle varie pratiche sociali, magari dando voce anche a quelle cosidette meno "nobili", o che quotidianamente scattano, postano e condividono miliardi di fotografie sui social veramente non contano niente? Davvero non hanno diritto di parola? Veramente non influenzano l'opinione pubblica, la produzione, il mercato, la società, la cultura e lo stile fotografico di noi eroi della visione colta e consapevole? Pensiamoci bene (anche guardando al passato) e sopratutto smettiamola di riferire, nel bene e nel male, il tutto-fotografico al nostro piccolo mondo cavalleresco, alla nostra tavola rotonda, non perchè dobbiamo rinunciare alle nostre raffinate pratiche e alle nostre belle idee, ma perchè dobbiamo capire che è importante confrontarsi con rispetto anche con quelle degli altri, comprendere appunto che la fotografia non è "nostra" ma è di tutti coloro che la praticano con ogni mezzo e fine, che la fotografia insomma è "una, nessuna e centomila" e che con l'avvento del digitale e dei social è diventata soprattutto una pratica quotidiana, un flusso continuo di comunicazione, relazione e scambio che interessa non solo una elite di appassionati ma la vita di tutti.  Un ringraziamento a Barbara Silbe per aver dato spunto a questa mia riflessione, in attesa di repliche appassionate!

venerdì 24 luglio 2015

Quanta cura richiede un attimo? La fotografia come organismo vivente


 Sandro Bini, Your Place, 2006

In un precedente articolo su questo Blog avevo definito quello del fotografo  "Il mestiere della scelta". In verità avevo come la sensazione che mancasse qualcosa... Sono passati diversi anni e credo di avere compreso che la sola scelta non basti per essere un buon fotografo, perchè la foto, le foto una volta fatte hanno bisogno di tempo e di cura per rimanere e per durare.  Da qui il titolo di questo post: "Quanta cura richiede un attimo?" Per attimo faccio riferimento a quello tecnico dello scatto, a quella frazione di tempo e di spazio che sospende e ritaglia la vita nel contorno di un'immagine, a quello che Geoff Dyer chiama "l'infinito istante", perchè permane fissato per sempre in una fotografia. Certo anche la cura è fatta di scelte, ma abbandonare i propri scatti migliori nel cassetto o in un hard disk, cosa che molto spesso capita a tutti noi,  ha qualcosa di triste e di crudele. Alcune fotografie ci chiedono infatti insistemente di vivere, ovvero di essere guardate da altri, di essere restituite al mondo che ce le ha donate. Ma allora quanta cura richiede un attimo? Forse, se l'istante è infinito anche la cura deve essere infinita. Saremo per primi noi fotografi a dovercene occupare, poi forse e gioco forza prima o poi dovremo chiedere aiuto e/o affidarle ad altri: familiari, parenti, amici, curatori, critici, gallerie, archivi, musei. Importante, per quelle scelte, sarà comunque non trascurale o peggio abbandonarle, perchè una buona fotografia è come un organismo vivente che ha bisogno di essere visto, nutrito, amato e custodito.

giovedì 11 giugno 2015

Presenze: ovvero esercizi visivi per una gestione dello sguardo


Sandro Bini, white chair 2009

Come una presenza possa  generare attesa.
Come una presenza possa generare assenza.
Come una presenza possa generare partecipazione.
Come una presenza possa generare distacco.
Come una presenza possa generare desiderio.





venerdì 5 giugno 2015

Il gioco delle fonti e dei rimandi: ovvero la fotografia come cultura dell'immagine


 
Sandro Bini, Galizia, 2009

A dispetto di taluni a cui posso apparire il solito “saputello” di fronte a un’immagine fotografica dopo un primo impatto estetico ed emotivo che solitamente assorbo in silenzio (perché trovo ci sia poco da dire ma tanto da sentire) si attiva subito nella mia testa quello che voglio chiamare il “gioco delle fonti e dei rimandi” ovvero la ricerca delle possibili matrici visive e culturali dell’immagine: una sorta di “fotografia comparata” che cerca paragoni e parentele, filiazioni ed eredità. Per alcuni questo gioco può apparire addirittura svilente come una sorta di negazione del genio e dell’originalità autoriale, mentre a me appare un modo anche divertente per cogliere “la differenza” nella comparazione, la novità nella continuità. Non voglio solo ribadire Geoff Dyer e il suo fantastico discorso sul repertorio fotografico fatto di autori, di temi e  del loro ritorno a distanza di spazio e di tempo, ma anche sottolineare come la fotografia sia davvero relazione ed esperienza, ma che questa relazione e che questa esperienza siano sempre mediate da immagini che sono patrimonio visivo di chi li ha viste e conosciute. Insomma l’esperito è solo uno degli ingredienti del fotografico la cultura dell’immagine rimane per me sostanziale e altrettanto decisiva. Ammetto infine che l’esegesi emotiva, psicologica e sentimentale delle e sulle immagini fotografiche non sia il mio forte, faccio fatica ad esprimere quello che vedo e sento, ma credo che questo gioco culturale che metto in atto e che mi permette di approssimarmi al segreto di una immagine senza mai rivelarlo possa aiutare ad aprire orizzonti e percorsi di senso anche in tale direzione.

lunedì 27 aprile 2015

La fotografia al mondo: autoreferenzialità vs funzione civica


© Sandro Bini, 25 aprile 2015


La fotografia che avrebbe dovuto raccontare il mondo al mondo, le persone alle persone, rischia seriamente di raccontare se stessa a se stessa... Il giorno del 25 Aprile al termine di una bella grigliata a casa dell'amico Dario​ Orlandi si ragionava di come la fotografia potesse riconquistare l'utopia etica di essere informazione, testimonianza, sensibilizzazione e cultura per le masse... Come la fotografia postesse essere veicolo di valori e di cultura per tutti e quali strategie i fotografi potessero adottare per uscire dal circolo vizioso dell'autoreferenzialità e dell'intellettualismo snobbistico privo di scopo, della complicazione linguistica per tornare ad avere una accessibile funzione civile. E' stato un momento emozionante, sembrava di essere tornati agli anni '30 alla nascita del fotogiornalismo. Certo capiamo bene che la situazione oggi è molto diversa, ed estremamente complicata ma questa spinta mi appare oggi più che mai fondante. Ecco interroghiamoci  sul cosa e sul come fare…. Liberiamo la fotografia da se stessa e ridoniamola al mondo e alla gente con vicendevolezza e semplicità.

martedì 31 marzo 2015

Pictures & Lyrics: incontri nel tempo fra testi e immagini




Fuggir dall'orlo di questa prosa scaltra
e trattener ogni traccia.
Copiare il vento nel suo canto e nel suo ritmo arcano.
Levar le vele e respirare.
Questo è il mio salto!
Lo "stato di grazia".
La mano dell'Angelo che fa volare.

(le date e li luoghi li so, ma in questo caso non sono importanti)