venerdì 8 febbraio 2019

Street tabù: progetto, posa e messa in scena


© Sandro Bini, Across the bridges, along the river (Firenze 2018)

Considerare il genere (letterario, cinematografico, musicale, fotografico) un bene in espansione e in trasformazione provoca sempre alcune resistenze. Nell'ambito della Street Photography il purismo spontaneista non fa eccezione. Non si tratta di forzare il gusto, strategie e approcci (ognuno fotografa come più gli piace e ritiene opportuno) ma di analizzare e magari riuscire ad accettare (se non sposare) alcuni sviluppi e aperture nel concetto e nel linguaggio della fotografia di strada.

© Sandro Bini, Across the bridges, along the river (Firenze 2018)

Partiamo dal primo tabù: il progetto. Con questo termine intendo la possibilità di una pianificazione a monte (prima della fase di scatto e non nella successiva fase di editing) nella fotografia di strada. Ovvero è possibile darsi un tema, un focus, una delimitazione di campo, in base al quale esercitare la propria azione fotografica? E se la riposta è si, cosa comporta e cosa cambia nella tradizione del genere?  La mia risposta, ampiamente sperimentata in anni  di docenza naturalmente è si. Il progetto se tematico deve essere concettualmente elastico, interpretabile, aperto, ma deve essere capace di creare un orientamento e una chiave di lettura del contesto ambientale e sociale da affrontare, capace di generare nuovi interrogativi. Attenzione: l'esistenza di un progetto a monte non modifica la libertà autoriale nei differenti approcci possibili (discrezionale, indiziario, relazionale, provcatorio ecc) ma conduce a una lettura maggiormente orientata del social landscape che non necessariamente deve escludere deviazioni e incursioni fuori campo (almeno in fase di scatto) in quando l'editing rimane sempre una fase fondamentale di ulteriore filtratura dei materiali. Insomma non si tratta di dare rigide griglie interpretative ma semplici indicazioni di lettura, ma soprattutto di preparare un clima mentale e un background culturale che focalizzi e alimenti soggettivamente lo sguardo verso un più limitato ambito di ricerca. La libertà romantica e flaneuristica del fotografo di strada può insomma svilupparsi e affinarsi, specializzandosi tramite un progetto visuale politicamente, socialmente ed esteticamente più definito e orientato. Gli esisti conclusivi e/o intermedi ovviamente possono modificare il progetto iniziale in un circuito virtuoso di scambio.

© Sandro Bini, Florence city markets (2017)

Il secondo street tabù è senz'altro la posa. Ovvero il ritratto di strada, che da molti viene osteggiato nel nome di un imprescindibile spontaneismo del genere. Il mito del fotografo di strada invisibile, narratore esterno della vicenda umana, è uno dei più duri a resistere, non tanto perchè si creda ancora nell'oggettività fotografica, ma perchè (timidezza a parte) presuppone, in qualche modo, una certa posizione di "superiorità" del fotografo rispetto ai suoi soggetti (ignari di essere fotografati) e un loro "controllo" a cui è difficile rinunciare. William Klein se ne fregava palesandosi in modo evidente e interagendo con i passanti fino alla provocazione. Friedlander più sottilmente e ironicamente ci metteva in guardia negli scatti in cui lui stesso compare nel campo inquadrato come riflesso o come ombra, dicendoci "anche io ragazzi faccio parte del ballo". Altri fotografi palesano la loro soggettività e la loro presenza attraverso gli sguardi rivolti verso i loro obbiettivi dai passanti che inquadrano. Diane Arbus, infine, i suoi soggetti, incontrati casualmente per strada, li fermava, li metteva in posa e li ritraeva più o meno lì dove li incontrava, stabilendo una relazione e raccontandoci di loro, di noi, di se stessa, del mondo e del modo con cui noi guardiamo l'altro e con cui l'altro ci ri-guarda. Non vedo il motivo per non continuare a farlo se ci interessa e se ci piace.


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© Robert Doisneau, Bacio all'Hotel de la Ville (Parigi 1950)

L'ultimo e più resistente tabù della street photography (pena lo sconfinamento dal genere se non addirittura la scomunica) è certamente la messa in scena. Che però, più o meno di nascosto, è stata sempre praticata anche dai più grandi e famosi maestri del genere. Basti ricordare il Bacio all'Hotel de la Ville di Doisneau (1950), ma non è certamente l'unico caso. Insomma si può mettere in scena una fotografia di strada? E come? E quando? E fino a quanto? L'interrogativo qui diventa etico più che estetico, nel senso che il problema, a mio modesto parere, si sposa dal piano dell'occasione e della quantità (quando e quanto può essere messa in scena una fotografia di strada) a quello della onestà del fotografo che dichiara o meno di averci fatto ricorso sistematicamente o occasionalmente. La foto del bacio di Doisneau era una committenza di Life sapientemente orchestrata e ottimamente recitata da due attori, e non frutto di un magico incontro di un vagabondaggio urbano, ma il grande fotografo francese per anni non si è certo opposto alla sua mitizzazione quale icona spontanea dell'amore romantico (e ancora così noi la leggiamo, sebbene conosciamo bene tutta la storia) e questo fatto deve pur farci riflettere. E per finire anche questa immagine di Jeff Wall (Mimic, 1982), con la quale voglio concludere questo mio intervento, l'avremmo potuta scambiare per una image a la sauvette, se il fotografo canadese non avesse esplicitamente dichiarato e sottolineato (fin nella scelta espositiva) l'importanza concettuale della sua messa in scena. Più di tre decenni sono passati dalla romantica fotografia in bianconero di Doisneau e forse, se ci pensiamo bene, questa lightbox a colori di Jeff Wall degli anni '80 la  possiamo considerare anche un esempio dell'evoluzione del concetto e del linguaggio della street photography contemporanea, che si interroga si sui conflitti di genere, sociali e razziali, ma anche e, soprattutto, sui confini sempre più incerti fra finzione e realtà nella nostra società e nella nostra cultura.


Immagine correlata
© Jeff Wall, Mimic (1982)