Sandro Bini, Editing box & philodophical book (2018) |
I pur notevoli e meritori sforzi di sistematizzare una materia "liquida" come quella dell'editing fotografico, inteso come selezione e messa in sequenza o impaginazione di un lavoro, mi lasciano ancora (almeno filosoficamente) parzialmente insoddisfatto. Il compito difficilissimo e complicatissimo di sistematizzare e individuare delle costanti metodologiche e strutturali nella costruzione dei portfolio, utilissimo per i docenti, credo possa essere addirittura rischioso per alcuni fotografi, se mal interpretato tecnicamente come prontuario. Del resto la necessità di ricorrere nelle operazioni manualistiche più intelligenti a riferimenti multidisciplinari (cinema, letteratura, musica, architettura ecc), categorie fluide e sempre negoziabili e sorprattutto a dei case histories esemplificativi, rivela la complessità e la singolarità di ogni operazione in ballo.
Le difficoltà di sintesi, di analisi e di metodo derivano dai tre relativismi in campo: 1) relativismo di funzione (per cosa e a che cosa serve l'editing) 2) relativismo di pubblicazione (tipo di output editoriale: rivista, libro, web, mostra) e di contestualizzazione (target e ambito sociale e culturale di riferimento) 3) relativismo di interpretazione (l'inevitabile soggettività dell'editing) e, infine, anche dalla inesauribile provvisorietà delle edizioni (compresa quella dei libri in caso di ristampa). Insomma come spesso ripeto l'editing non è una scienza esatta, ne tanto meno una tecnica, ma si avvicina forse più a una scienza sociale, relazionale, occupandosi filosoficamente e anche fisicamente del nostro rapporto con le immagini.
Ecco che allora, in questo senso, il riferimento culturale fondamentale va senz'altro a quella Scienza delle immagini promossa dallo studioso americano W.J.T. Mitchell nell'ambito dei più recenti studi della Cultura visuale. Una scienza che tende a unire tutti i saperi sull'immagine nella loro più ampia dimensione fenomenologica, sociale e culturale. In questo senso particolarmente suggestiva e ricca di stimoli per la questione dell'editing mi sembra la visione filosofica "neoanimistica" di Mitchell dell'immagine come organismo vivente, dotata di una sua autonoma volontà (What do pictures want 2005), spesso diversa da quella delle intenzioni autoriali o curatoriali. In questo senso capire davvero cosa vogliono le fotografie, saperle leggere, sentire e ascoltare, riconoscendogli la loro autonomia, può davvero essere il primo dovere-sapere dell'editor, il primo passo fondamentale per il rispetto del loro racconto e del loro senso.