martedì 16 dicembre 2014

"Questo Paese": perchè non potevo mancare in quel libro


Sandro Bini, Esplorazioni sulla Via Pistoiese / Questo Paese
      
Nel 2001 anno di fondazione di Deaphoto mi occupavo già da tempo di fotografia di territorio e dovendo dare una mission all'Associazione scrivevo:

  (...) L'intenzione è quella di promuovere la fotografia nel quadro di una forte socialità, sentita quale unico veicolo per un autentico coinvolgimento emotivo e intellettuale nell'analisi delle problematiche contemporanee. Le attività sono rivolte a tutti coloro che intendono il medium come strumento di relazione, di apertura e di indagine e in particolar modo ai giovani che vogliono farne uno strumento critico di conoscenza. I progetti sono indirizzati principalmente alle analisi delle questioni sociali e ambientali del Territorio con campagne di indagine, documentazione e sensibilizzazione che accompagnano da sempre le nostre attività formative.

Più tardi dopo aver costruito nel tempo uno Staff di lavoro individuavo, insieme agli altri membri, quelli che erano gli obbiettivi della nostra ricerca:

 1. Promuovere la conoscenza del territorio, sensibilizzando l’opinione pubblica verso le sue problematiche economiche, sociali e ambientali, favorendo interventi di pianificazione urbanistica e intervento sociale.2. Svolgere una continuata e sistematica operazione di monitoraggio del patrimonio, architettonico, urbano, paesistico e ambientale, segnalando con tempestività il formasi di fenomeni di degrado sociale e ambientale. 3. Costituire un importante archivio fotografico che documenti e interpreti le rapide trasformazioni del paesaggio contemporaneo rendendone visibili e facilmente comprensibili le dinamiche di sviluppo e i fenomeni (positivi e negativi) che le accompagnano.

Inidicando poi come la filosofia di progettazione e il metodo operativo si basassero su fondamentali presupposti concettuali della fotografia contemporanea sul paesaggio:

1. la consapevolezza del significato economico-sociale-culturale del Territorio;
2. la soggettività analitica e la parzialità del rilevamento quale migliore approccio per l’analisi della complessità visiva del paesaggio contemporaneo;
3. la centralità dell’esperienza e della relazione fisico-emotiva per una riappropriazione critica dello spazio;
4. la valorizzazione formale dell’esperienza fotografica dei luoghi e il suo collegamento alle altre estetiche contemporanee.

Al di là di questi importanti presupposti culturali, le metodologie di approccio tecnico e formale variano, a seconda dei temi e degli spazi affrontati, dal rigore documentario alle strategie informali del reportage. Comunque, e in ogni caso, gli autori sono assolutamente lasciati liberi nella scelta e nella interpretazione dei diversi soggetti all'interno dell'area oggetto di documentazione. Unici vincoli sono solo, eventualmente, quelli di natura topografica (limiti geografici del campo di azione del reportage) e temporale (eventuali termini di consegna dei materiali).

Tutto questo lungo, spero non troppo noioso, preambolo per far capire come fosse quasi un destino che la notevole intuizione progettuale di Fulvio Bortolozzo prima con la creazione di una community facebookiana di "fotografi territoriali" (We do the rest) e successivamente con l'ideazione e lo sviluppo del progetto fotografico Questo Paese  (oggi diventato un bel volume acquistabile on demand su Blurb) non potesse non incotrare  fin dall'inizio la mia simpatia, coincidendo di fatto con la mia idea di fotografia come relazione sociale e esplorazione visiva del reale e con quella di una politica culturale collettiva  tesa a smitizzare la figura del Grande Autore e un certo eroismo della visione duro a morire e pronta ad aggirare le tradizionali formule e canali che governano la cultura visiva e non solo in Italia con una operazione di autoproduzione "dal basso".

Un grazie e sopratutto un bravo quindi a Fulvio e a tutti i fotografi e gli autori dei testi che hanno contribuito a questa preziosa ricerca. Che avrà sicuramente qualche pecca o qualche ingenuità, ma che ha degli incontestabili meriti: primo fra tutti quello di riportare l'attenzione sulle realtà del nostro Paese e su di una fotografia come rivelazione del reale, secondariamente quello di fare raccontare i luoghi da parte di chi realmente li conosce e li vive. Un primo importante obbiettivo, al quale mi auguro possono aggiungersene altri (nei modi e nelle forme che il curatore di questa coraggiosa iniziativa reputerà più adeguati) è stato raggiunto.  Da parte mia, e spero di tutti i "paesani", il sostegno e la condivisione che questo Progetto sicuramente merita, sicuro che in tanti lo dovranno prima o poi conoscere ed apprezzare.

lunedì 6 ottobre 2014

Generazione Self: una nuova via della fotografia italiana?

Sandro Bini, Atlante.it - Si Fest #23 - Ott 2014

Nel primo Weekend di Ottobre in quel di Savignano abbiamo assistito a un evento. Il riconoscimento culturale, se non la legittimazione, da parte di un importante festival fotografico italiano (SI Fest #23) di un fenomeno della scena fotografica contemporanea: quello di gruppi, collettivi, laboratori  e case editrici indipendenti che da almeno una decina di anni se non più cercano di proporre alternative di produzione e pubblicazione di immagini fotografiche, ma non solo, nell’ambito di una crisi politica, economica, istituzionale che ha compromesso seriamente la tradizionale filiera commissione-pubblicazione tipica della produzione fotografica novecentesca. La mostra Atlante.it nell’ex Mir Mar di San Mauro a Pascoli ha presentato infatti, tutti insieme per la prima volta, ben trentacinque gruppi fotografici, attivi da più o meno tempo in ricerche territoriali/sociali di tipo “documentario” sul territorio del nostro paese, evidenziando forse si una certa autorefrenzialità, omologazione estetica e di contenuto, ma anche un incredibile e interessante fermento di idee, progetti ed energie. L’operazione coraggiosa dei curatori del Festival, che farà storcere il naso ai più conservatori, potrebbe segnare infatti uno snodo interessante negli sviluppi della fotografia italiana, che forse ancora in tanti fanno fatica a comprendere. La nuova “Generazione Self” (self-committed, self-producing, self-publishing) sostenuta dalla comunità di rete, pare infatti poter fare a meno (ma non sappiamo bene come e soprattutto per quanto) delle tradizionali strutture che hanno governato, nel bene e nel male, la fotografia italiana dal dopoguerra ad oggi: editoria, agenzie, gallerie, musei, istituzioni pubbliche ecc. Ma l’interrogativo sulla loro resistenza o resilienza (per usare una parola di moda) è soprattutto di tipo economico. Per quanto tempo questi giovani e meno giovani riusciranno, in un periodo di crisi, a trovare le  forze, le risorse economiche e le energie per auto commissionarsi, auto prodursi, auto pubblicarsi e nel frattempo riuscire a campare, senza non essere riassorbiti (almeno in parte) da quel sistema in crisi che cercano di aggirare? I pericoli di una stagione del riflusso sono ovviamente in agguato... Bello sarebbe che i tradizionali poteri culturali che hanno fin adesso governato la fotografia italiana aprissero gli occhi e cominciassero sull’esempio del SI fest a interrogarsi, comprendere e valorizzare questo fenomeno, non per imbrigliarlo o fagocitarlo, ma nella migliore delle ipotesi per sostenerlo e incoraggiarlo, mantenendone i caratteri di indipendenza e sperimentazione culturale, al fine di non disperdere questa straordinaria forza ed energia o magari non finirne irrimediabilmente travolti.

mercoledì 10 settembre 2014

Pictures & Lyrics: Good Zero

Cari Amici,  il vostro blogger oggi è un po' stufo di riflettere e di pensare fotografia. Il vostro bloggher è stanco di parole e immagini in dialogo razionale. Il vostro bloggher allora le vuole cortocircuitare per cercare di aprire orizzonti di genesi e di senso. Si sovrappongano tempi e spazi: quelli della scrittura e quella dei prelievi fotografici in liberi richiami. Nessuna data, nessuna memoria, nessun ricordo, bene così....Iniziamo!


Good Zero

E se questo azzuro schermato
- trasferito cielo -
calamitasse fumo agli sguardi?
E se il supplicante diniego
significasse coraggio per le vie affollate?
E se il vero frutto fosse scheletro infossato?

Raccoglierei vetro dalle case,
fango dalle fabbriche,
ombre nere dalle arcate gialle.
E in accordi profondi e lontani
luci verdi dei fari.

Per lo stesso rapporto opaco
fra il silenzio e lo sparo,
concluderei tacendo, azzerando.
Solo, andando nelle discariche,
cifre a caso digitando
bianchi spenti terminali.


venerdì 29 agosto 2014

Randagi e da salotto: solo un gioco d’estate!


Sandro Bini , Sabwithcat  (Scansione da vintage print anni '90)

Forse oggi come oggi non sarebbe del tutto inutile ricordare che “fare il fotografo” significa fare le fotografie! Ovvero trascorrere una buona parte del proprio tempo sopratutto a fotografare ed andare a fotografare, e non a ritoccarle sul computer, nel tentativo (spesso vano) di renderle più belle, o a postarle sui social. In questa antica visione del mestiere la fotografia può essere interpretata come l’osso di un cane randagio che ha lungo scorrazzato per il mondo, o di un addestratissimo cane da riporto pronto a catturare le storie, oppure la visione più sorniona e distaccata di un gatto randagio o da salotto pronta per essere restituita al mondo in immagine. Non sorprende quindi l’amore e la predilizione per i cani e/o per i gatti di tanti fotografi. Per i primi basti pensare a Koudelka, Scianna, Moryama, Erwitt;  per i secondi a Van Der Elsken, Petersen, Araki.... Esiste uno stile felino e uno canino nella fotografia? E se si in che cosa si differenzia e sostanzia? E come potrebbe essere riconoscibile? Sarebbe divertente incasellare per gioco fotografi noti e meno noti in questa ipotetica divisione animalfotografica. Come sempre lascio volentieri il divertimento e il gusto a chi segue queste mie pagine!

martedì 11 marzo 2014

L’Archivio e il Progetto: la fotografia come campo di significato aperto



Sandro Bini,  Cortile Galleria degli Uffizi, Marzo 2010

In un recente post nel suo Blog La valigia di Vang Gogh l’amico Enrico Prada suggeriva una suddivisione fra "fotografi narratori" e "fotografi poeti", i primi propensi al racconto per immagini i secondi raccoglitori rabdomantici di epifanie visive in grado di sostenersi autonomamente sia come forma che come orizzonte di senso. La suddivisone, molto suggestiva, con i suoi rimandi letterari, avrà fatto forse storcere un po’ il naso all’amico Fulvio Bortolozzo (La Camera doppia) difensore di un “primitivismo fotografico” attento soprattutto alla specificità visiva dell’immagine e alle questioni dello sguardo fotografico, ma non può che incontrare le mie simpatie, fosse altro per motivi di formazione culturale. E’ anche vero però che i "poeti" spesso pubblicano i loto testi come raccolte, per cui anche loro possono trovarsi a che fare con questioni narrative e strutturali legate alla costruzione di un portfolio, sia esso per parole o immagini, ed anche vero che alcuni fotografi (fatta salva la suddivisione pradiana con la propensione quantitativa e qualitativa su un versante o sull’altro della produzione) sono in grado di cambiare registro a seconda dei casi ed essere a volte poeti, altre narratori, oppure, ancora più spesso, dei poeti-narratori (lirici) o dei narratori-poeti (epici). Le ripartizioni come si sa hanno dei limiti, ed esistono tutta una serie di sfumature e atteggiamenti intermedi, ma è innegabile che le stesse servano a circoscrivere un campo di indagine, ovvero, in questo caso, la complessità degli atteggiamenti percettivi, psicologici, metodologici e operativi di un fotografo. Per questo motivo mi piace complicare la faccenda e aggiungere ancora un’altra ripartizione: quella fra “fotografi d’archivio” e “fotografi a progetto”. I primi sono dei raccoglitori più o meno metodici o istintivi di immagini che costruiscono le loro serie in tempi molto lunghi lavorando di cesello sul proprio archivio e costruendo a posteriori (sui materiali raccolti) i temi della loro ricerca. I secondi sono abili costruttori di serie o racconti per immagini partendo da una idea iniziale predefinita (progetto) o committenza (assignment) che sviluppano (magari anche modificandola) nel corso di tempi variabili a seconda dei casi. Ma anche in questo caso gli atteggiamenti sono alternabili, modificabili, aperti e mai definitivi. Anche le immagini di un lavoro “a progetto”, una volta archiviato, possono essere “riciclate” in un lavoro d’archivio, così come un lavoro d’archivio può divenire lo spunto di idee per nuovi progetti. Insomma le fotografie e le serie fotografiche sono campi di significato aperto: su questo il lavoro di un fotografo come Lugi Ghirri ha ancora molto da insegnarci!

mercoledì 5 marzo 2014

Rullini & Sensori: democrazia analogica e dittatura digitale



Sandro Bini, Senza Titolo 2009

Voglio ringraziare l'amico Andrea Buzzichelli per aver stimolato e condensato questo mio scritto. Il buon Andrea in un post su facebook si domanda La bufala del rullino digitale adattabile alle vecchie 35 mm gira ormai da anni . Ma perchè qualcuno non lo fa davvero? Non mi pare una cosa impossibile e neppure stupida ... anzi .." Ecco al di là delle possibilità tecniche sulle quali non sono preparato, credo in buona sostanza che i motivi siano di puro marketing come sempre accade per le questioni di mercato,  ma credo anche che questi stessi motivi possono essere lo spunto ad una piccola riflessione filosofico-politica sull’analogico e sul digitale. Mi spiego: una eventuale presenza sul mercato fotografico di un  “rullino digitale” adattabile a qualsiasi macchina di piccolo formato e magari anche a quelle analogiche (esistono solo dorsi digitali per il medio e il grande formato) costituirebbe una svolta democratica del marketing digitale che sarebbe molto gradita dal pubblico dei fotografanti analogic born ma che i produttori si guardano bene di accontentare. Fin adesso, infatti, quando acquistiamo una fotocamera digitale acquistiamo in blocco pure il sensore/cpu che è impossibile da sostituire con uno diverso da quello originale. E’ un po’ come se in era analogica fosse entrata sul mercato una fotocamera che poteva funzionare solo con pellicole della stessa marca (in realtà con la Polaroid era proprio così!). Ma a parte il caso speciale (guarda caso della fotografia istantanea) chi mai avrebbe mai comprato quel modello di fotocamera? Insomma con l’avvento della fotografia digitale è finita la democrazia analogica della funzione matrice/memoria della pellicola (perchè come sappiamo la stessa pellicola andava bene sia su una compattina che su una reflex super professionale del medesimo formato)  e inizia la dittatura del sensore unico e insostituibile. L’unica possibilità di cambiarlo è infatti con uno identico o con l’acquisto di una nuova macchina. Per i produttori ovviamente tutto bene così con un caro saluto ai nativi analogici!

lunedì 24 febbraio 2014

Una specie di ritorno: la fotografia fra "rimorso" e "rimosso"



Sandro Bini, Senza titolo, Ottobre 2013

Tutto perfetto la luce, la forma, l’istante, ma la batteria è finita o la pellicola e a fondo corsa, oppure non ce la faccio proprio per tanti motivi a scattare in una determinata situazione emotiva (dolore, stress, angoscia o quant’altro). La foto è irrimediabilmente perduta, quell’irripetibile istante non potrà piu ripetersi, è definitivamente andato. Al "rimorso fotografico" sopradescritto fa da contrappunto il suo "rimosso": ciò che il fotografo ha scattato ma che in fase di editing accantona subito con sicurezza perché ritiene inadatto, banale, non funzionale  Nella mia esperienza didattica in fase di editing ho una procedura istintiva e collaudata: partire dalla revisione e valutazione degli “scarti”, magari ovviamente per confermali, spesso però capita di  recuperarli e che siano estremamente "funzionali" nella costruzione del percoso visivo. Non mi interessa tanto la valenza psicologica e terapeutica del “rimosso fotografico” quando la speciale qualità visiva (non saprei definirla in altro modo) che spesso "sento" in quegli scarti recuperati. Ecco mi piace pensare che il “rimorso fotografico” di non aver potuto o voluto fare quella determinata foto a volte ritorni in qualche modo in una sorta di mood visivo come  “rimosso” in qualche foto che abbiamo fatto e vorremo subito eliminare. E’ una attenzione speciale che consiglio a tutti di sperimentare, giusto per vedere cosa può capitare....

lunedì 6 gennaio 2014

Il mistero del rullino ritrovato: l'analogico fra culto e archeologia


Sandro Bini, da "Lo Schermo dell'Ombra" (1995-1998)

Di questi ultimi giorni ritrovamenti di rullini fotografici nei ghiacci e in altri luoghi ameni. La fotografia analogica tuttora praticata da tanti appassionati, nostalgici e meno, per motivi etici ed estetici interessanti da dibattere, diventa improvvisamente archeologia con novelli Indiana Jones che partono in missione per ritrovare il Santo Gral del Fotografico: il rullino scattato e mai sviluppato, oggetto culto per una (ri)scoperta del mistero dell’Immagine Latente ai tempi del digitale. Improvvisamente il suo ritrovamento in cantina o in un cassetto diventa una moda. Come mai questo rinnovato interesse archeologico per la fotografia ai sali d’argento? Come mai il ritrovamento di un rullo diventa notizia? Sarebbe interessante interrogarsi su cosa nasconda questo passaggio dell’analogico dalla storia alla preistoria della fotografia digitale: strategie di mercato per un suo imminente ritorno, o la consacrazione anticipata della sua definitiva fine?