Sandro Bini, dalla Serie "Margini e relitti" |
Sono poco incline alle riflessioni ontologiche e forse anche poco popolare ma con gli anni "mi sono fatto persuaso" che la fotografia riguardi l'apparire e non dell'essere delle cose, si occupi del visibile e non dell'invisibile, descriva la superficie e non la profondità, riveli l'istante e non l'eterno. Nella sua innegabile vocazione "mondana" (che riguarda il mondo, l'esterno) e la sua ineluttabile istantaneità e superficialità a due dimensioni, di ritaglio spazio-temporale muto e immobile, di "specchio dotato di memoria", è possibile solo navigarne la superficie, restare a galleggiare per cercare di indovinare il nostro essere, alimentare i nostri miraggi, scoprire la nostra profondità, indagare il nostro desiderio o illusione di eternità. Ma per far questo si può solo navigare in
superficie rimanendo saldamente a galla: ciò che serve è uno scanner non una sonda. Pensare invece che la fotografia
riguardi l’essere, l’invisibile, la profondità, l’eterno significa sbagliare
prospettiva, fraintendere la natura per un possibile effetto, sbagliare l’entrata per
l’uscita, perdersi in uno sterile labirinto metafisico. Qui è ora (hic et nunc come dicevano i latini) è la sua dimensione "umana troppo umana", la sua e la nostra fragilità fatale.
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