venerdì 21 aprile 2023

AI & Photography: ovvero chi ha ucciso Liberty Valance?

Still film da John Ford,
"The man who killed Liberty Valance" (1962)


L'avvento della tecnologia AI nel campo delle immagini ha provocato il consueto scossone in ambito fotografico. La realizzazioni di immagini para-fotografiche tramite l'Intelligenza Artificiale ha riportato al centro del dibattito la questione su che cosa oggi sia fotografia e cosa no. Ovvero se nella sua definizione conti più il momento di produzione o quello di fruizione. La linea di difesa "lens based" (con gli associati concetti di scrittura di luce e di referenza reale), che in fin dei conti ha resistito anche alla rivoluzione digitale, comincia a vacillare, o meglio ad essere messa in questione da una prospettiva spettatoriale.

Possiamo domandarcelo in modo più diretto. Nella definizione del fotografico conta di più il momento produttivo (come viene realizzata tecnicamente l'immagine) o conta più quello percettivo (come viene fruita l'immagine)? Se le immagini prodotte dall'AI, pur con gli attuali "difetti", sembrano infatti fotografie e vengono esperite dal pubblico come tali (anche sapendo che sono generate al computer) possiamo considerarle fotografie oppure no? Mi sembra questo infatti l'aspetto più interessante del dibattito in corso (più che quello della legittimità o meno di poter partecipare con queste nuove immagini ai Concorsi fotografici).

Altre due questioni che pongo all'attenzione si orientano poi proprio sul lato produttivo. Se è vero che questi nuovi programmi generativi di immagini si basano su data base fotografici all'origine dell'immagine generata non ci sta forse (pure nell'incredibile ricostruzione e manipolazione finale) sempre un fotografo e una qualche referenza reale? E se il prompt dei comandi è di tipo testuale, non registriamo forse un'interessante convergenza-collaborazione-rivalsa fra testo e immagine, con una rinnovata predominanza del primo sulla seconda in cui è in definitiva l'operatore a dettare con più o meno precisione (almeno in parte) le regole all'algoritmo generativo?  Il fatto che per creare immagini interessanti sia necessario saper scrivere, mi sembra un elemento importante di questa nuova tecnologia.

Altre questioni etiche ed economiche riguardano poi la produzione, la gestione e il controllo dei programmi, le questioni del copywright e  gli ambiti di applicazione (artistici, professionali, commerciali) di queste nuove immagini, e  l'influenza e l'impatto che avranno sul lavoro, sulla cultura e sulla società. Infine, un altro portato interessante di questa nuova svolta,  riguarda la diffusione di un generale maggiore scetticismo nei confronti delle immagini, che già sensibilmente aumentato con la rivoluzione digitale (le immagini non sono la realtà, ne tanto meno la verità), allo stato attuale di diffusione di pericolose strategie comunicative (post-verità, fake news) mi sembra in definitiva piuttosto salutare.

*Il sottotitolo  fa riferimento all'omonimo film di John Ford del 1962.
 Son certo che i cinefili sapranno trovare l'aggancio concettuale a questo articolo.


 

martedì 1 febbraio 2022

Dallo zapping allo scrolling: strategie fotografiche del flusso


© Niccolò Vonci, Tutto a posto e niente in ordine (2022)


In principio furono al Letteratura, l'Arte e il Cinema di avanguardia del Novecento a scombinare le logiche tradizionali della narrazione. Lo stream of consciousness  joyceiano, le strategie ludiche e oniriche dada e surrealiste, il foto-collage, la scrittura beat, l'assemblage pop e così via. Le nuove narrative cercavano non solo di replicare i meccanismi ludici e psichici e di esplorare l'inconscio, ma anche di restituire lo shock dell'esperienza visiva accelerata e frammentaria della società industriale e dei consumi, in cui fotografia, cinema e televisione stavano modificando in profondità il nostro sensorio e la nostra percezione del mondo.

Con il Pictorial o Iconic turn dovuto alla rivoluzione digitale e social, all'interno del più ampio fenomeno dello sviluppo del web e della globalizzazione, dagli anni Duemila anche la fotografia artistica (soprattutto quella di matrice poetica, diaristica e memoriale) si aggancia alle sperimentali logiche del flusso novecentesche. Già dagli anni 90 un giovane Wolfgang Tillmans col il suo primo libro edito da Taschen (1995) e le sue mostre site specific, azzera le gerarchie dei temi e dei generi, inaugurando in chiave narrativa un libero flusso di immagini che procede per libere associazioni e in quella espositiva una differenziazione dimensionale e materiale delle fotografie e una loro dislocazione rizomatica (con spaziature differenziate) all'interno dello spazio.

Le strategie fotografiche del flusso, sperimentate dai fotografi a partire dagli anni '90 del Novecento e tipiche di molta fotografia artistica contemporanea, paiono essere, insomma, quelle di un prelievo soggettivo nell'archivio immagini del proprio vissuto, in cui coesistono tempi diversi e materiali eterogenei e in cui la selezione e il montaggio (editing) costituiscono, insieme al dato biografico, i soli principi strutturali. Questa rinnovata combinatoria di immagini (oltre a evidenziare in modo nuovo temi e visioni cari agli autori) rispecchia e trae impulso però, non solo dalla frammentazione dell'esperienza e dell'identità tipica della società liquidò-moderna e della prestazione o dall'elaborazione visiva di traumi e vicende più o meno personali, ma anche e soprattutto dal cambiamento radicale che le nuove tecnologie digitali, il web e i social hanno introdotto nell'esperienza della comunicazione e della percezione visiva contemporanea.

Si tratta, secondo gli studiosi di Cultura Visuale,  di un vero e proprio cambiamento di paradigma dovuto, da un lato all'onnipresenza degli schermi e dalla simultanea e sovrapposta presenza di immagini (di varia origine e tipo) nella nostra esperienza quotidiana, dall'altro da meccanismi tecnologicamente indotti e compulsivi (ormai quasi inconsci e automatizzati) quali lo zapping televisivo e lo scrolling delle immagini sui nostri personal devices. Atteggiamenti capaci di creare una vera e propria dipendenza psicologica e gestuale e di condizionare in profondità le soglie della nostra attenzione e le strutture visive dei nostri immaginari.

giovedì 4 febbraio 2021

Collocazione spettatoriale per un evocativo spazio di deprivazione sensoriale

sandrobini > visual context / febbraio 2021

Alla fin fine si tratta, di volta in volta e non solo come fotografi, di scegliere cosa includere e cosa escludere nel nostro paesaggio. Di decidere se lavorare per l'incanto o il disincanto, o magari scegliere una terza via: quella dell’incanto del disincanto o del reincantamento. Ne riparleremo.

Impossibile rimanere appesi alla nostra incertezza, bisogna decidere, perché il taglio fotografico nello spaziotempo (anche se causale) è spietato e irreversibile. E non ci mostra niente, se non per indizi, di quello che capita oltre i margini dell’inquadratura. Il fuoricampo è una nostra fantastica invenzione mentale che certamente  può essere abilmente innescata, sollecitata, ma non possiamo uscire dalla scena che osserviamo, se non in quella presente della nostra collocazione spettatoriale (disincanto). Possiamo entrare e uscire, ma non si può andare avanti o tornare indietro nel tempo come guardando un film su Netflix. E’ tutto presente lì, in quell’evocativo spazio di deprivazione sensoriale: nessun movimento, nessuna profondità, nessun rumore, nessuno odore, nessun suono, a volte nessun colore; mortificazioni tattili e cambiamenti di scala. E’ in questa assenza, mancanza e astrazione dal reale dell'hic et nunc fotografico che la vista parrebbe magicamente funzionare come unico innesco di tutti i sensi, di tutti i sentimenti e di tutti i ragionamenti. Ma è poi davvero proprio così?

Beh direi di no perché non c’è solo lo sguardo,  il tempo e lo spazio esperenziale del fotografo arbitrariamente fissato nella e dalla tecnologia dell’immagine, ci sono anche quelli relativi e di volta in volta determinati dell'osservazione della picture. Quando, dove e come guardiamo una fotografia? Chi siamo e quanti siamo? Come stiamo? Che luce c’è? Ci sono rumori, odori, suoni, riflessi? Per quanto tempo la osserviamo e per quale motivo e con quali aspirazioni e aspettative? A quali esperienze, fatti, luoghi, memorie e a quali letture, ascolti e visioni, ci ricollega mentalmente la sua osservazione?  Insomma siamo o non siamo noi che "animiamo" le immagini nel loro contesto di apparizione dal nostro posizionamento e dalla nostra prospettiva? Beh direi proprio di si, direi che siamo noi a doverle reincantareRiconoscendogli razionalmente e non solo emotivamente, la loro soggettività e autonomia e la loro influenza ed efficacia.

sabato 5 dicembre 2020

Cucinare le immagini: ovvero l'editing e la metafora culinaria

Sandro Bini > Ugnano / Firenze / Changing Landscapes 2015

Nella mia quasi ventennale esperienza di docente lo scoglio didattico più impegnativo è stato senz'altro quello di cercare di trovare un linguaggio adatto a descrivere la fenomenologia dell'editing, ovvero della scelta e della messa in sequenza delle immagini di un lavoro fotografico. Prassi creativa di soluzioni sempre nuove e diverse, che lungi dall'essere una scienza esatta, si presta ad essere descritta più in termini metaforici, con riferimento ad altri linguaggi, che strettamente fotografici.

Fra i tanti i linguaggi che si prestano e che ho provato a utilizzare in questi anni per descrivere questa "maestria" fatta di cultura ed esperienza (da quello architettonico e cinematografico a quello musicale e letterario, dalla moda all'arredamento, fino a quello affettivo amoroso e familiare), quello che più di tutti sembra funzionare e che più spesso mi viene da utilizzare è quello culinario.

Secondo questo ultimo parametro di riferimento metaforico le immagini a disposizione per l'editing sono infatti come ingredienti con cui inventarsi un piatto che ogni volta è nuovo e diverso, perché nuove e diverse sono le immagini con cui abbiamo a che fare,  e in cui dosi, elementi, gusti e sapori trovino, attraverso una preparazione rigorosamente senza ricetta, la loro giusta alchimia. Comprendendo bene come con gli stessi ingredienti, utilizzando procedimenti differenziati, si possono cucinare piatti diversi  e ugualmente buoni e soprattutto che non è affatto necessario, per cucinare un buon piatto, che tutti gli ingredienti disponibili (anche se di ottima qualità) siano utilizzati.


martedì 18 agosto 2020

La macchina in vacanza non la porto: ovvero come e perché autori & professionisti fotografano le loro vacanze

sandro bini campo cecina alpi apuane agosto 2020
sandrobini > campo cecina / alpi apuane / agosto 2020


Piccolo prologo come antefatto
Nel weekend di Ferragosto ci siamo trovati in cinque amici fotografi in gita sulle Alpi Apuane. Tre non hanno portato la macchina fotografica, due l'hanno portata. Di questi ultimi due uno non l'ha mai utilizzata, l'altro solo per pochissimi scatti. Tutti, ovviamente, hanno fotografato con la fotocamera del cellulare e condiviso quotidianamente (spesso in tempo reale) alcune immagini su Instagram e Facebook.

Nota
Nel seguito dell'articolo con i termini fotografo/fotografi intendo i professionisti e i fotografi non professionisti con carriera o ambizioni autoriali, ovvero con alle spalle o in prospettiva la realizzazione di pubblicazioni, mostre, partecipazioni a concorsi ecc.

Una diabolica strategia 
Di cosa si tratta? Ma si a conti fatti si tratta della messa a punto di una diabolica strategia neoelitaria, che molti di noi hanno iniziato più o meno consciamente, da diverso tempo, a praticare. Basta! Per differenziarci dal popolo dei fotoamatori la macchina fotografica in gita/vacanza non la portiamo più! Da seri professionisti e/o autori la usiamo solo per le committenze (insomma solo e quando ci pagano) o ovviamente per i progetti autoriali (ovvero quando vogliamo fare gli "artisti"). Ma quindi in vacanza non fotografiamo più? Eh no! Nel benemerito tempo libero fotografiamo solo con lo smartphone, per poi condividere come tutti le foto sui social. Beh ma allora direte questo uso di fatto uniforma i fotografi in vacanza alla moltitudine dei fotografanti del tempo libero. E no eh! Ecco allora che c'è stato bisogno di escogitare di una strategia d'uso che riscattasse e nobilitasse questa prassi democraticamente diffusa, ovvero di una logica un po' perversa che la differenziasse sia da quella del vacanziere fotografante, che da quella del fotoamatore evoluto, che ancora in vacanza e in gita la macchinetta fotografica se la porta eccome (ma solo per le foto "artistiche"), ma utilizza anche il telefono per le cosiddette "foto ricordo".

Per una diversa funzione social
Infatti, anche per noi fotografi l'uso fotografico dello smartphone è finalizzato alla condivisione social, ma il suo utilizzo (al di là della scelta dei soggetti e della qualità dello scatto) appare differentemente motivato, limitato e  finalizzato rispetto a  quello della maggioranza dei fotografanti: di media non più di 3-4 scatti al giorno e un paio di post giornalieri (fra feed è stories) finalizzati, anche e soprattutto, alla propria promozione professionale (più che a quella sociale pubblica e/o privata).

La censura del condivisibile
Il condivisibile autopromozionale del professionista/autore insomma funziona differentemente da quello social-amatoriale, ovvero agisce di fatto come il più spietato dei photoeditor, censurando a monte (prima dello scatto) o a valle (al momento di condividerle pubblicamente) gran parte  delle "foto ricordo" (per capirsi quella della fidanzata di fronte al monumento o quella fatta alla pizza che ci mangiamo a cena), foto che magari ci piacerebbe anche fare, o addirittura scattiamo, ma che come fotografi non ci possiamo permettere di divulgare pubblicamente sui nostri profili social (sigh!). E allora? Tranquilli, restano a portata di obbiettivo tutti gli altri stereotipi della foto di vacanza: i paesaggi, le architetture, i ritratti posati, qualche dettaglio, "i giochi di luce", ma trattati ovviamente all'interno dell'originalità del  nostro sguardo autoriale, con la nostra grande sensibilità luministica e maestria tecnica, compositiva e formale. Daje!

L'utilizzo dello smartphone come una medio-grande formato
Questo uso parsimonioso, esclusivamente pubblico e fortemente finalizzato e qualificato dello smartphone (potenzialmente sempre a disposizione e dalle infinite potenzialità  di scatto) finisce per far assomigliare paradossalmente l'uso della fotocamera del telefono da parte dei fotografi in gita a quella di una fotocamera professionale di medio o grande formato, tradendo di fatto la sua vocazione pop. Di fatto, concettualmente, un mezzo smart viene utilizzato come un mezzo pro: con grande attenzione, economia e finalità. Nello switch illusorio dei fotografi i grandi display dei telefonini di oggi si trasformano così magicamente in un vetro smerigliato da banco ottico. Certo, non si può decentrare o basculare in fase di ripresa come col grande formato, però grazie all'ampio display possiamo prestare maggiore attenzione ai bordi e ai dettagli dell'inquadratura e raddrizzare le prospettive direttamente "in camera" con le apposite app. Anche i tempi di realizzazione e condivisione immediata dello scatto si dilatano fino a qualche minuto (post produzione, inserimento di testi, hastag, tag)  e finiscono per avvicinarsi a quelli del lento processo di utilizzo di una fotocamera di medio o grande formato. 

Le foto delle vacanze come lavoro promozionale
Ed è in questo nuovo lento rituale fotografico (spesso consumato in tempo reale e che assomiglia sempre più a un vero e proprio lavoro che toglie tempo e spazio al godimento esterno off screen) che si completa e si consuma l'illusione del passaggio da una smart ad una slow photography: la fotografia fatta col cellulare per i fotografi si trasforma in un dispositivo di attenzione e comunicazione lento e studiato, rivolto per lo più su soggetti statici (paesaggi, ritratti, architetture, dettagli) e utilizzato soprattutto a fini di promozione professionale e autoriale. Un uso di élite che ci fa ingenuamente sentire diversi e/o più importanti rispetto agli altri turisti che incontriamo e che si divertono a fotografare con i telefonini, in velocità e senza troppe grandi preoccupazioni formali e comunicative, le gioie del proprio tempo libero. Un utilizzo che nasconde in sé una bella fregatura, in quanto ci costringe a lavorare anche quando siamo in gita e in vacanza, sottraendo tempo e spazio al legittimo godimento, per continuare a coltivare l'illusione che siamo ancora noi i "soli" e i "veri" grandi professionisti dell'immagine!

lunedì 27 aprile 2020

Per una fotografia fuori di sé: piccolo glossario per una pratica plurale

AA VV, MEMORIES /NO MEMORIES
 Fotografia fra flusso e ricordo
A cura di Sandro Bini e Giulia Sgherri
Index di una selezione dall'Archivio Tumblr (2015-2019)
memoriesnomemories.tumblr.com

Durante le lunghe giornate della Quarantena ho approfittato per leggere la riedizione di un saggio assai interessante uscito nel 2011 e ripubblicato da Feltrinelli nel novembre 2019. Il saggio in questione di Andrea Balzola e Paolo Rosa si intitola "L'arte fuori di sé / Un manifesto per l'età post-tecnologica", Balzola è scrittore e docente all'Accademia delle Belle Arti di Brera e Torino,  mentre il compianto Paolo Rosa (scomparso nel 2013) è stato il cofondatore nel 1982 di Studio Azzuro e docente della Accademia delle Belle Arti di Brera. Il libro partendo dalla crisi di identità di un'arte contemporanea per lo più ingabbiata in un sistema autoreferenziale e guidata da logiche di mercato (incapace quindi di interpretare la trasformazione sociale e antropologica in atto causata dalla rivoluzione digitale), cerca di sviluppare alcune proposte alternative, applicabili a mio modesto parere anche al mondo della fotografia di ricerca. Con una sintesi del tutto soggettiva e arbitraria (delle riflessioni e delle tesi dei due autori del saggio) cercherò di suggerire una sorta di glossario, come premessa teorica e piccolo manifesto operativo, per una pratica fotografica alternativa e socialmente impegnata. Ovvio che per ogni parola o gruppo di parole indicate sono possibili esempi e ulteriori infiniti approfondimenti. Compito di questo articolo, come sempre, è solo quello di aprire un dibattito e sollecitare riflessioni e suggerimenti.

Premesse teorico-concettuali

Responsabilità
Chi produce fotografia ne è responsabile eticamente ed esteticamente Essere responsabili significa farsi delle domande: sul dispositivo che stiamo utilizzando (autocoscienza tecnologica) e sulla scelta e trattamento dei temi che stiamo affrontando. Bisogna utilizzare la fotografia per un preciso progetto etico ed estetico, in grado non solo di interpretare il presente, ma anche di fornire riflessioni e strumenti per immaginare il futuro.

Complessità
Comprendere la complessità delle differenti pratiche sociali e utilizzi mediatici e comunicativi delle  immagini è fondamentale per una pratica fotografica consapevole.

Tecnologia / Linguaggio
Le nuove tecnologie dovrebbero produrre nuovi linguaggi in grado di leggere e interpretare meglio i fenomeni in atto. E' compito dei fotografi svilupparli, nell'ambito del loro lavoro, per il trattamento dei temi delle loro ricerche.

Procedure e finalità operative

Pluralità / Ritualità / Politica
Alla Fotografia Singolare e autoreferenziale (rivolta ai soli addetti ai lavori) si risponde con una Fotografia Plurale, rituale, politica: una pratica fotografica collettiva (collaborativa, partecipativa, relazionale, interattiva e sociale) rivolta potenzialmente a tutti e in grado di stabilire contatti e relazioni con la società e il Territorio. Si tratta di una operatività in grado di generare habitat creativi socializzabili, sia fisici che virtuali (attraverso la rete). In questo modo la fotografia si fa politica e sociale ed è in grado, non solo di leggere i fenomeni, ma di riconfigurare i comportamenti e la sensibilità collettiva.

Anacronismo
Alla cosiddetta fotografia contemporanea, legata all'attualità, alla moda e al mercato dell'arte, si contrappone una fotografia anacronistica (interpretatrice e anticipatrice dei fenomeni e in grado di agire su di essi). Una fotografia capace di risensibilizzare una umanità anestetizzata e formattizzata, attraverso un uso profanatorio e performativo del dispositivo.

Antropoetica
Bisogna cercare di riconnettere la memoria tecnologica del dispositivo fotografico ad una dimensione umana, sensibile, emotiva e narrativa. Questo tipo di approccio antropoetico è in grado di combinare: riflessione teorica, consapevolezza politica e sensibilità poetica.

Formarsi / Formare
La formazione deve essere continua. Centrale è il rapporto con la tecnologia, in quanto offre la possibilità di creazione di nuovi linguaggi in grado di interpretare meglio i fenomeni in atto. Come formatore, per un fotografo, è importante saper spaesare e farsi spaesare, imparando dagli studenti, con un approccio didattico laboratoriale e partecipativo, che sia consapevolmente sperimentale.

Organizzare
Il ruolo del fotografo, in quanto operatore e sollecitatore culturale, ricercatore di rapporti relazionali, deve essere in grado di creare contesti e habitat creativi e di fruizione collegati al territorio o alla rete, in grado di valorizzare e alimentare socialmente (in modo interattivo e partecipato) le sue visioni, creando gli anticorpi simbolici verso le patologie sociali.

domenica 29 marzo 2020

Sul campo, (da) dentro e a distanza: il racconto fotografico della pandemia


sandrobini > italy lockdown / marzo 2020

Lo so, sicuramente è ancora presto per avere un quadro complessivo di quelle che sono e che saranno le strategie fotografiche del racconto della Pandemia da Corona Virus. Ma dalla mia prospettiva, sicuramente parziale e soggettiva, proverò a individuare (a mio rischio e pericolo) quelle che, secondo me, sono e saranno le tendenze principali. Dopo questo preambolo, ancora una premessa. Prenderò un esame non solo la produzione professionale ma anche quella autoriale e di massa, perchè l'immaginario e la memoria collettiva di questa catastrofe sanitaria-economica-sociale passerà da ogni tipo di immagine capace rimanere impressa nella nostra memoria, al di là del suo scopo e della sua provenienza. Una prima distinzione fondamentale, evidente fin dal titolo di questo articolo, sta, secondo me, nella fenomenologia della produzione iconica: sul campo, (da) dentro e a distanza.

Produzioni sul campo.
Con questa locuzione intendo quelle fotografie realizzate dai fotografanti (professionisti o amatori non importa) in esterno, al di fuori delle loro abitazioni. In tale ambito, secondo me, è possibile individuare fino a questo momento cinque grandi filoni: le fotografie delle città deserte, quelle dei runners e i capannelli di persone prima dell'inasprimento delle misure restrittive,  le code ai supermercati, le persone affacciate ai balconi e alle finestre, le fotografie dal fronte delle terapie intensive e delle produzioni e servizi "indispensabili".

Per quanto riguarda i primi quattro filoni (le città deserte, le file ai supermercati, i runners e i capannelli di persone e la gente alle finestre e ai balconi), dopo una prima fase,  in cui il contributo dei non professionisti è stato, almeno quantitativamente rilevante, le misure di contenimento hanno fatto si che queste potessero essere realizzate per lo più dai fotogiornalisti. Anche se per ognuno di noi con le fotocamere dei nostri smartphone diventa difficile resistere alla tentazione di farlo anche nelle brevi fuoriuscite per fare la spesa. Importante sarà capire come e perché, fra tutte le foto che sono e saranno pubblicate, alcune avranno maggiore impatto mediatico e resteranno impresse nella nostra memoria collettiva.

Per quanto riguarda, invece, le fotografie dal fronte delle terapie intensive e delle attività lavorative ritenute essenziali, il contributo maggiore (visto le oggettive e giustificate difficoltà di accesso) viene dagli stessi addetti ai lavori con alcune immagini che grazie alla loro diffusione mediatica e social sono già divenute molto popolari.

Produzioni (da) dentro. 
Questo filone, molto praticato, riguarda le fotografie che raccontano la Quarantena dall'interno delle nostre abitazioni. Diari fotografici che mostrano e raccontano in maniera narrativa e/o concettuale, drammatica o ironica, l'isolamento, la preoccupazione, la noia, la vita domestica e familiare nelle nostre case. Qua non ci sono grosse distinzioni, professionisti e amatori, si danno tutti da fare. Le idee sono più o meno originali gli stili i più disparati. Sarà interessante vedere e capire cosa resterà di tutta questa enorme quantità di immagini nel nostro immaginario. A tal proposito sono nate molte iniziative da parte di Enti, Istituzioni, Associazioni, Magazine per raccogliere, selezionare e pubblicare i lavori più interessanti. 

Produzioni a distanza.
Questa pratica utilizza le riprese on line delle videocamere di sorveglianza, quelle di google streetview, o  screenshot da web e tv per raggiungere i luoghi esterni ed interni più disparati e distanti. Questa modalità operativa ha avuto e avrà in questi giorni e nelle prossime settimane un clamoroso rilancio dettato dalla condizione di cattività in cui quasi tutti i fotografi (compresi i fotoreporter privi di un assignment) si trovano costretti ad operare. Di rilancio si tratta, è bene chiarirlo, e non certamente di una novità, in quanto tale pratica postfotografica (di puro prelievo o con operazioni di  cosmesi analogica o digitale del materiale prelevato) ha una storia, sia in ambito artistico che fotogiornalistico, di almeno un decennio. 

Da parte mia prevedo già, per le prossime settimane, un dialogo e un interessante confronto fra i tre schieramenti, sopratutto fra i fotografi sul campo e quelli a distanza, anche se penso con meno verve polemica rispetto al passato, e forse anche un certo poco giustificato e mal celato risentimento degli esponenti della cosiddetta "fotografia artistica" per l'utilizzo in ambito fotogiornalistico, o di racconto social di linguaggi (anche postfotografici) maturati nell'ambito della ricerca contemporanea (fenomeno normalissimo e ampiamente studiato e storicizzato). Per quanto mi riguarda penso e credo che ci siano possibilità interessanti di analisi e di lettura in tutte e tre le pratiche che ho cercato di sintetizzare. Ma incoraggio i fotografi a cercare soluzioni coraggiose nelle scelta dei temi e radicali in quella dei linguaggi, soluzioni che la stessa condizione di emergenza ci stimola a sperimentare.