domenica 22 febbraio 2009

Guardare lontano: “nostelogio” del campo lungo



In una raccolta di scritti di Wim Wenders di qualche tempo fa (L'atto di vedere 1992) il celebre regista de Il cielo sopra Berlino (1987) prendeva atto di come con la nuova cultura video televisiva si stesse perdendo il gusto tutto cinematografico del campo lungo, dello sguardo lento, dello sguardo lontano. Wenders individuava le motivazioni tecniche di questo declino (la bassa definizione dell’immagine televisiva e digitale rispetto a quella cine-fotografica), e le inevitabili conseguenze estetiche sul linguaggio visivo: il restringimento del campo (con l’imporsi universale della tipica inquadratura televisiva da “talking heads”) e la frammentazione e la velocità dello sguardo (montaggio veloce) a discapito dei tempi lunghi delle panoramiche cinematografiche. Mi pare che a distanza di poco più di un decennio dalla pubblicazone del libro, le valutazioni di Wenders si siano dimostrate profetiche in fotografia con una diffusa scomparsa fra i giovani fotografi (a parte autorevoli sacche di resistenza che non sto a citare) del gusto del campo lungo e della panoramica, e proprio nel momento in cui l’immagine digitale (almeno in fotografia) è in grado di competere se non di superare per definizione quella su pellicola. Come spesso accade sono i fattori sociali e culturali a determinare il cosiddetto stile visivo contemporaneo. Si impone sulle nuove generazioni il gusto visivo frammentario e ravvicinato da videoclip e il melting pop da photoblog. Fenomeni fra l’altro interessantissimi e tutt’altro che da sottovalutare (anzi da studiare) sia socialmente che esteticamente. Ma mi sembrerebbe quanto meno una grave perdita fosse trascurata la potenzialità visiva e narrativa della veduta lenta e panoramica, se e in quanto la miopia postmoderna del guardare-vicino annullasse del tutto l’utopia storica del guardare-lontano. Come spesso capita su queste pagine, riporto la riflessione dal piano teorico all’ambito più concreto dell’esperienza personale di docente, in cui mi trovo a registrare fra i giovani studenti un’ottima propensione all’analisi indiziaria sul dettaglio, veloce e frammentaria (ad esempio nella Street Photography e nel fotodiario), ma una minore capacità di sintesi analitica su visioni panoramiche, più lente e articolate, che pure tentiamo di incoraggiare tramite la visione di modelli esemplari e l’esempio concreto sul campo (Analisi territoriale, Paesaggio). Ad esempio l’idiosincrasia al cavalletto (che aiuta sicuramente per una visione più contemplativa) è piuttosto diffusa fra i giovani studenti di fotografia e sintomatica di ulteriori disagi percettivi nei confronti dello spazio-tempo. Ma più che un rifiuto dell’oggetto (che è pure pesante da portarsi in giro!) registro soprattutto una pregiudiziale mancanza di pazienza verso i tempi lunghi di preparazione che lo strumento impone. Manca, almeno in partenza, una cultura dell’attesa e il gusto preparatorio di un certo rituale fotografico, forse sintomatico di qualcosa di ben più serio e profondo. Ma ho potuto anche notare proprio fra gli stessi studenti, come chi abbia avuto la pazienza e l’umiltà di apprendere e imparare la disciplina del guardare lontano, non possa più fare a meno di farlo, riuscendo a vedere in maniera diversa anche ciò che sta vicino. Insomma, sempre da un titolo di Wenders :“Faraway, So Close!”!

Le foto di Berlino (2002) a commento di questo Post fanno parte della serie >Sandro Bini “Dream Cities” (work in progress dal 2002).

9 commenti:

Unknown ha detto...

Caro Sandro, come sempre cerchi di incoraggiare un certo tipo di visione, ovvero cerchi di incutere ai tuoi allievi un metodo che vada (anzi che veda) in profondità (il campo lungo appunto). Ho notato anche io la poco propensione verso il cavalletto in generale nei miei colleghi allievi. Ritengo sia un problema di approccio tecnologico. L'avvento del digitale, come detto in varie sedi, fa tendere la stragrande maggioranza dei fotografi amatoriali e non, a scattare una serie innumerevole di fotografie visto che non ha costi (apparenti aggiungo vista la mole di tempo da impiegare in postproduzione) e quindi si guarda corto, le immagini non vengono pensate, i set non vengono studiati, non so quanti utilizzino il bracketing e men che meno il pulsantino per la prodondità di campo, la valutazione dei bianchi è lasciata al caso ed a noiosissimi nonchè estenuanti sessioni di postproduzioni e nottate fotoscioppiane. Il cavalletto aiuta e non poco ti fa guardare. Ricordo che quando feci l'esercitazione di paesaggio del corso base in quel dell'Anconella alla successiva revisione immagini mi dicesti "Si vede che hai usato il cavalletto". Io lì per lì rimasi un pò di stucco ed un pò perplesso. Ma da che lo vede? Ma l'inquadratura è quella che tu la faccia a mano libera o no. Boh! Poi ho capito, il discorso non era solo tecnico e tecnologico, ma molto più profondo. L'immagina aveva poesia: ma sono argomentazioni che vengono col tempo e con l'amore per l'argomentazione visiva. Accosto a questo punto la fotografia alla pubblicità di qualche tempo di una nota casa produttrice di caffè che recitava è "bono qui e è bono qui"; si scatta con la testa, con il cuore e, da ultimo con il dito.

IANIROID

Emanuele Baciocchi ha detto...

Ciao Sandro, la tua riflessione è molto interessante. Mi permetto di intervenire.

Pare che Einstein, durante una lezione, ebbe a dire che: “Una persona dalla vista eccezionale, guardando dritto davanti a sé, dovrebbe poter vedere la propria nuca”. Una vista eccezionale (nel puro senso dell’eccezione) è una delle caratteristiche di un fotografo. Vista non “oftalmica”, bensì come capacità di penetrare la realtà, per tradurla nella propria visione attraverso la realizzazione di un’immagine bidimensionale, delimitata dall’inquadratura, organizzata nella composizione e descritta con la luce.

Andando contro Einstein, il fotoamatore (o l’aspirante fotografo) odierno invece di cercare la propria nuca, tende a fermarsi a un palmo dal suo naso: è più facile, comodo e immediato. Ma i buoni foto-diari e la buona street photography sono sempre più rari. Si tratta di temi apparentemente facili e apparentemente alla portata di tutti, oggi più che mai, con l’abbattimento dei costi dovuti alla rivoluzione digitale. Si prova e si riprova a fotografare l’angolo della propria bocca così come si scatta e si riscatta per strada fino a quando non si ottiene una immagine decente, senza preoccuparsi di cambiare il rullino. Chi non si cimenta ormai con questi generi della fotografia, spesso con risultati esilaranti?

Penso che oltre al campo lungo, ciò che tende a scomparire è la capacità di studiare l’immagine che si vuole ottenere. La fatica, ma anche la ferma convinzione della bontà dell’idea che si vuole realizzare in un immagine, a prescindere dall’inquadratura più o meno ravvicinata. In pratica, l’elemento della casualità ha preso il sopravvento nella pratica fotografica, in quanto è possibile sbagliare infinite volte. Un tempo, sbagliando si imparava. Oggi, sbagliando ci si accontenta.

Grazie e a presto,
Emanuele Baciocchi

Sandro Bini ha detto...

Ringrazio Alberto ed Emanuele per i loro preziosi interventi. Ad Alberto, che conosco bene essendo stato un mio studente, preciso solo (ma penso che pure lui lo sappia bene), che non è che semplicemente usando il cavaletto che si ottengono immagini "poetiche" (sarebbe troppo facile), ma che utlizzandolo si è semplicemente più attenti e concentrati... Ad Emanuele che non conosco personalmente (se non forse di vista)concordo che l'elemento della causalità (economicamente facilitata dal digitale) ha preso il sopravvento in certa fotografia contemporanea, ma ciò di non è di per se un "male" (cosa diremmo allora di fotografi come Robert Frank e William Klein che hanno fatto del caso la loro cifra stilitica postcartierbressoniana??), anzi direi il contrario (almeno per un certo tipo di fotografia). Il fatto è che la pianificazione e il controllo dovrebbero avvenire successivamente in fase di selezione del materiale (vedi il mio post precedente sulla pratica fotografica in between), alla luce di una forte preparazione visiva e di un chiaro progetto fotografico, cosa che troppo spesso invece non avviene per evidenti carenze culturali. Come spesso avviene i commenti danno spunto a nuovi interessanti sviluppi, ma riconducendo il mio intervento al suo senso originario, ci tengo a precisare che esso non era uno scontro fra pratica in between e pratica contemplativa, ne un invito ad abbandonare la poetica del vicino in favore di quella del lontano... ma casomai quello di cercare unire ed alternare le due "diete" per una sana e corretta alimentazione fotografica. A presto!

Fulvio Bortolozzo ha detto...

Probabilmente non c'è un motivo preciso. Penso comunque che convergano la giovane età, con le sue impazienze e frammentazioni di pensiero, e la scarsa conoscenza della procedura "contemplativa".
In ogni caso, son cose che si recuperano con l'età e l'erudizione ;-)

Tanto per fare un caso personale, la serie "Scene di passaggio (Soap Opera)" [http://www.bortolozzo.net/works/scene/00.html] mescola la procedura "lenta" del grande formato su cavalletto, di ascendenza Atgetiana, con i campi spesso ravvicinati e le decisioni di ripresa quanto più istantanee possibili della tradizionale street americana.

Emanuele Baciocchi ha detto...

Agli autori che citi aggiungerei Winogrand, la sua pratica fotografica estrema, il suo gesto di scattare così insistente e inconscio. Consiglio a tutti di sfogliare la monografia "Figments from the real world", in cui oltre alle immagini da lui selezionate, si possono ammirare i suoi provini a contatto (appunto, l'importanza dell'editing).
Con il mio intervento volevo proprio aggiungere qualcosa, piuttosto che attenermi al tema da te proposto. E soprattutto manifestare una certa preoccupazione per la tendenza - facilitata dal digitale - a scimmiottare proprio gli autori sovracitati, che con l'utilizzo del caso hanno creato una cifra stilistica così forte da essere universalmente riconosciuti come maestri della fotografia. Ho il timore che molti - utilizzando una fotocamera dagli scatti infiniti - si illudano di raggiungere i loro risultati troppo facilmente, oppure scegliendo una immagine fra 1000 realizzate. Una vera indigestione di immagini inutili... Una dieta sana ed equilibrata è appunto l'antidoto migliore, anche nel saper miscelare casualità e realizzazione dell'immagine "pre-visualizzata", così come imparare a stendere un progetto da seguire coerentemente.
Per quanto riguarda la riscoperta del campo lungo, sono d'accordo con te, ed è proprio per questo che trovo noiose molte immagini eccessivamente ravvicinate (come dicevo, l'angolo della propria bocca realizzato dopo innumerevoli tentativi), mentre sono sempre più rare le buone immagini "larghe" e intrinsecamente complesse. E' vero anche, però che in Italia, di immagini di paesaggio ne abbiamo fatta indigestione (con l'esperienza di Viaggio in Italia e seguenti, anch'essa oggetto di scimmiottamenti che sembrano non dover finire mai). Sarebbe interessante vedere qualcosa di veramente nuovo in questo campo. Ma questa forse è un'altra storia... :-)
Grazie e a presto,
Emanuele

Unknown ha detto...
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Unknown ha detto...
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Unknown ha detto...
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Unknown ha detto...

Non posso che essere d'accordo con te Sandro e, purtroppo, non posso fare a meno di riconoscermi in parte nella generazione "frettolosa". Ma forse è miope la parola più adatta.
Sicuramente in parte è dovuto alla poca esperienza, ma è anche vero che si impara guardando il lavoro altrui e se i lavori altrui convergono in una direzione.....viene istintivo adeguarsi.
In futuro rifletterò di più, ma se posso lascerò comunque volentieri il cavalletto a casa! :D

Valerio Stuart