martedì 13 aprile 2010

Dalla previsualizzaizone alla postvisualizzazione: piccola riflessione sul passaggio dall’analogico al digitale


                                           Sandro Bini, Screen (Settembre 2008)

Un illustre e direi eroica scuola di pensiero fotografico di epoca analogica sosteneva che il fotografo dovesse già in fase di ripresa previsualizzare la fotografia stampata ed operare in modo che tutta la processualità tecnica dall'esposizione allo sviluppo del negativo fino alla stampa seguisse questa prima intuizione o meglio visione fotografica (Weston, Adams e affini). Accennato che ancora in piena era analogica la tesi era stata più volte discussa quando non palesemente criticata in termini anche ideologici (come ad esempio da un street photographer come Garry Winogrand, che diceva candidamente di fotografare un oggetto per verificare che aspetto avesse in fotografia), con l’avvento del digitale e del file raw pare decisamente se non da rivedere quanto meno da “spostare in avanti” nel processo di realizzazione dell’immagine. La previsualizzazione infatti non è scomparsa ma è solo rimandata, con più calma, al momento in cui apriamo il file raw nel nostro programma di gestione, prima ancora di “svilupparlo”, col vantaggio di poterla applicare ad ogni tipo di fotografia e non solo a quella di posa. E’ in quel momento infatti, piuttosto che in fase di ripresa, che col digitale la capacità critica, l’esperienza e la cultura visiva (nonchè la capacità di gestione dei software di fotoritocco dal parte del fotografo) sono in grado di far prefigurare possibili e alternativi risultati, ed è in quel momento di fatto e non prima che oggi viene trasferita la fase di previsualizzazione cui deve seguire una adeguata e sapiente postproduzione del file che la possa compiutamente realizzare. L’intuizione modernista e romantica della previsualizzazione in fase di ripresa (di era analogica) lascia insomma il campo alla postvisualizzazione postmoderna del file dell’era digitale.

4 commenti:

Unknown ha detto...

Concordo abbastanza, fermo restando (per me)che il genere fotografico influenza questa caratteristica del digitale. Non solo: il tempo stesso è un'altra variabile.
Penso al reporter che non ha tempo di fare troppa post-produzione, allo street photographer che può fotografare solo andando e tornando dal lavoro(sigh), al paesaggista bianco e nero che necessita di avere ombra sul piede, scuro ai lati, bianchi il giusto etc.
Chi vuole il massimo della qualità (Scuola di Dusseldorf ad es) per stampe enormi necessita di una fase pre-scatto intelligente e studiata.
La post digitale è comunque quasi sempre una manna, spesso una panacea, non potrei farne a meno.

Roberto Baglioni ha detto...

Mi ricordo che Piergiorgio Branzi, intervenendo all'incontro di "Scritture di luce" dedicato a Giacomelli disse piu' o meno che per lui e Giacomelli stesso, all'epoca, il negativo non era altro che un punto di partenza, una materia un po' "raw" (aggiungo io), da cui ricavare, manipolando tonalita', contrasti e tagli in camera oscura, l'immagine finale.

Anonimo ha detto...

Scattare in analogico ti obbliga a pensare e quindi a previsualizzare (anche inconsciamente) l'immagine che stai scattando.
Il digitale invece consente di premere il pulsante con una certa incoscienza e il risultato finale può essere frutto di elaborazioni successive (neanche lontanamente pensate al momento dello scatto).

piero ha detto...

Sono un appassionato di fotografia (eternamente alle prime armi) grazie anche al digitale. Io penso che lo scuotimento delle sensazioni inizia all'atto dell'inquadratura In quel piccolo spazio rettangolare devi "montare" la scena che per pochi attimi, solo per pochi attimi, riesce a toccarti... e così via per gli scatti successivi.
In postvisualizzazione si apre un altra porta ed entri a contatto diretto col tuo soggetto che se ne sta li', fermo o virtualmente mobile e solo con lui ti trovi a parlare, a creare e solo tu puoi trasformarlo affinché lasci un segno nel tuo profondo fino a provare anche gioia.