Sandro Bini, Scottish Journey (2008) |
Capita sempre più spesso, surfando sui web fotografici, sfogliando riviste di settore, o visitando mostre e festival, di incappare in decorosi progetti di documentazione e reportage in cui l’importanza del tema e del soggetto fotografato è spesso offuscata da una patinatura digitale più o meno alla moda che confeziona in maniera spettacolare e ammiccante la superficie dell’immagine distraendo fatalmente dal suo contenuto informativo e che normalmente finisce con l’attirare l’attenzione più superficiale di pubblico e critica. Non faccio nomi o esempi per non attirarmi antipatie, ma credo che i campioni siano sotto gli occhi di tutti. Attenzione non parlo in questo caso delle iperboli del linguaggio spesso fini a se stesse (grandangolari spinti, inquadrature forzate, mossi estetizzati), ma di stuccature, laccature, lucidature, patinature digitali, spesso affiancate da tecniche di stampa con tecnologie di avanguardia e alla moda (pigmenti, carte cotone ecc ecc) che secondo il modesto parere di chi scrive, tolgono invece di aggiungere, distraggono invece di concentrare sul livello informativo e performativo dell’immagine di cui questo tipo di fotografia dovrebbe (almeno secondo gli intenti dei “padri fondatori”) farsi portavoce. Credo insomma (è un mio parere personale e quindi ampiamente opinabile) che il formalismo neomodernista e il nuovo pittorialismo digitale non aiutino affatto questo tipo di fotografia (il discorso è ovviamente diverso per la moda e la pubblicità, dove pure molto spesso si esagera) e penso in tutta sincerità che una sobrietà ed economia dei mezzi (compreso un giusto apporto di postproduzione) possa migliorare di molto le cose. Pur non proponendo un ritorno al low fi nell’uso del medium proposto per la prima volta dagli artisti concettuali degli anni 60/70 (anch’esso del resto ampiamente estetizzato) mi permetto di suggerire almeno la pratica di una giusta misura dettata dal gusto e dalla tradizione del genere, misura che ovviamente rimane soggettiva per ogni tipo di progetto e per ogni fotografo (analogic born o digital native) e soprattutto per ogni tipo di pubblico interessato. Ma in ogni caso, a mio modesto parere, l'eccesso di postproduzione è spia non solo di una concessione del fotografo di reportage all'evidenza spettacolare della società dell'immagine, ma sopratutto il pericoloso segnale di una sfiducia rispetto alla forza di documento storico e sociale del reportage. Quando nella torta c’è troppa glassa finisce col nauseare, rovinare i denti e aumentare colesterolo e glicemia!
Articolo estremamente condivisibile su dove è andato a finire il reportage. Spesso i lavori sembrano provenire tutti dalla stessa matrice con queste desaturazioni ed effetti quasi alla Dave Hill. E il senso stesso del reportage ne esce offuscato. Forse se si tornasse a far parlare le immagini per quello che sono , per il loro contenuto piuttosto che questi effetti accattivanti per qualcuno (ma non per me) qualche fotografo cambierebbe lavoro, e solo i migliori resterebbero. Ma non sono certo che ci sia 'sta volontà. Mi è capitato di vedere invece sempre più spesso scimmiottamenti di lavori altrui (a McCurry fischiano le orecchie ogni volta che esce un ritratto reportagistico) e poca sostanza, poca farina del proprio sacco. E' la mancanza di cultura visuale a omogeneizzare tutte le proposte. Viva la foto imperfetta, viva la foto libera da photoshop, quella che ti da veramente qualcosa in cui quasi non c'è post produzione, perchè il miglior workflow è quello che non ti ci fa pensare ogni volta che vedi una foto.
RispondiEliminaMi piacerebbe vedere degli esempi per valutare. Perche' non fare dei nomi? Si tratta di puro esercizio di critica, e quindi ammissibile!
RispondiEliminaD'altra parte la fotografia, fin da subito, ha preso due strade diverse: il pittorialismo e il "realismo". Si tratta di sensibilita' artistiche diverse e secondo me entrambe legittime, anche se il pittorialismo ha sempre dato l'impressione di non credere fino in fondo al mezzo fotografico subendo una sorta di complesso di inferiorita' rispetto all'artista pittore. Tuttavia spesso i risultati sono talmente accattivanti che e' difficile condannare.
Ringrazio i primi commentatori che come spesso capita offrono ulteriori interessanti spunti di riflessione. @ Roberto (i cui commenti sono sempre attesi e apprezzati) dico che non ho voglia ne interesse a fare nomi o esempi anche perchè la questione è molto soggettiva e opinabile e non voglio in queste pagine fare il "maestrino" o il "castigamatti" ma solo sollevare questioni (l'esempio semmai l'ho dato in positivo con la mia fotografia che accompagna l'articolo). Puntualizzo inoltre che nell'articolo la questione dell'eccesso di postproduione è sollevata solo in merito al "realismo" ovvero alla fotografia di reportage e documentaria e non alla fotografia tout court.
RispondiElimina@ Alex dico solo che mi è molto piaciuta la "chiusa" del suo intervento che condivido appieno: "perchè il miglior workflow è quello che non ti ci fa pensare ogni volta che vedi una foto" e che non escludo di utilizzare (citando ovviamente l'autore) con i mei studenti.
"e se fosse che dei cattivi reportage diventano "buoni" per eccesso di photoshop ?"
RispondiEliminaCaro Sandro,
questa discussione, come avrai intuito dal post "ethic" (http://www.10bphotography.com/index.php?page=ethic&lang=ita)sul sito del 10b, mi ha sempre coinvolto molto, pero' temo che tu stia confondendo un po di cose.
conosco bene la "patinatura" di cui parli e sono completamente d'accordo con te, c'e' un'estetica per ogni cosa e confondere maniera e contenuti e' sempre molto pericoloso.
proprio per questo il ritorno al "low fi" a cui accenni, che nel 2011 si traduce in "hypstamatic" o "lomography" e' in assoluto una delle mode più' pericolose nella fotografia sociale e di documentazione.
la fotografia e' sempre stata vicina nella sua evoluzione alla tecnologia.
pensa solo al passaggio da bianco e nero a colore.
ora esistono dei sensori che hanno grande latitudine e degli inchiostri che permettono degli standard conservativi altissimi.
e questo mi sembra solo un bene.
che poi una mostra venga stampata su una carta lucida, semilucida, cotone o tela e' faccenda davvero relativa (anche io non amo le carte che hanno troppo "carattere", si rischia di vedere più' la carta della foto).
Anche tu quindi, ti trovi a criticare "l'eccesso di postproduzione", ma per definire un eccesso, bisogna definire dei limiti.
io ci provo da anni, nonostante non sia di certo la responsabilità' di un laboratorio, ma di ogni singolo fotografo od editore, ma più' passa' il tempo e più' capisco che e' praticamente impossibile.
Se ti vai a guardare il nostro portfolio, troverai di tutto. lavorazioni del 2005, che oggi trovo quasi "grottesche" ma che all'epoca riscossero grandi successi.
lavorazioni che rendono la postproduzione quasi invisibile, file che sembravano più' "lavorati" prima della postproduzione, forzature stilistiche azzardate e perfino complessi fotomontaggi (playboy e tante altre foto che non sono nel portfolio online).
Ogni foto ha la sua interpretazione, per volontà' del fotografo, e in piccola parte, dello "stampatore".
proprio come facevano i "padri fondatori".
le stampe di Bresson o Salgado hanno una cura ed una raffinatezza meravigliosa. altro che foto imperfetta o senza "postproduzione".
trovo che alla fine l'unica regola che funzioni sia il rapporto di fiducia tra chi racconta e chi legge. se si rompe quel rapporto, semplicemente non si può' più' parlare di fotogiornalismo ma di fotografia. buona, oppure cattiva.
mi piacerebbe sapere quale e' la tua definizione di questo limite.
claudio palmisano
10b photography
ph. +39 0697848038
fax. +39 067011853
http://www.10bphotography.com
Caro Claudio ti ringrazio inanzitutto del tuo generoso intervento. Non credo sia compito mio, tuo o di altri stabilire i "limiti" negli eccessi da postproduzione nel reportage (questo è quello di cui parla nell'articolo). Credo si tratti di questioni di etica e di estetica e penso per questo che ogni fotografo dovrebbe trovare da solo una sua "misura". Per questo non ho fatto ne nomi ne esempi negativi (perchè la cosa è troppo soggettiva) ma ho semplicemente postato, insieme all'articlo, un mio scatto come esempio di "posproduzione moderata". Ma quello che mostro, si badi bene, è solo il "mio modo" e lungi da me volerlo imporlo ad altri!
RispondiEliminaNon capisco insomma che cosa starei confondendo e ti pregerei di farmelo capire meglio: forse l'etica con l'estetica? Il contenuto con la forma? Ma siamo sicuri che le due cose (almeno nel reportage o nella fotografia documentaria) siano così distanti? Concludo questo mia risposta evidenziando il fatto che in questo Blog mi piace sollevare domande e non dare risposte o ricette vincenti, e mi aspetto anzi che commenti come il tuo o quello di altri adetti ai lavori o semplici appassionati possono aiutarmi a capire di più e magari a confondermi di meno! Grazie per questo.
direi che ci troviamo sostanzialmente d'accordo.
RispondiEliminail limite tecnico non esiste e soprattutto non c'e' una postproduzione giusta ed una sbagliata.
i limiti etici, ho provato a tracciarli nell'articolo sul mio sito e servono solo a capire lo stato attuale delle cose.
sono stati licenziati fotografi ed ad altri e' stato negato un premio gia' assegnato, a causa dell'espressione "eccesso di photoshop", quindi, per qualcuno, questo limite esiste.
per questo ho provato, e provo ogni giorno, a capire come la penso io.
come ti dicevo prima, quello che non mi piace e' il credere che una visione reazionaria ci potra' salvare.
tornare alla pellicola, anzi, alla lomo, anzi ancora peggio alla holga non e' affatto rivoluzionario ma solo una nuova "brandizzazione" della fotografia.
usare come termine di paragone "quello che si poteva fare in camera oscura" non e' per niente una garanzia di non manipolazione ... (pensa ad eugene smith...)
e i poveri pigmenti, non c'entrano davvero niente ;)
sono solo dei minerali che rendono piu' durature le stampe.
tutto qui, a queste confusioni facevo riferimento.
un saluto.
claudio