Sandro Bini, Firenze 2011 |
In principio fu l'incendiario magnesio, quello che il buon Jacob Riis, pioniere della fotografia sociale americana, usò a fine '800 per illuminare i tuguri degli immigrati a Ellis Island a New York, ma che servì anche ai fotografi ambulanti per i ritratti familiari. Poi vennero le lampande usa e getta dell'ingombrante Speed Graphic di Weegee per illuminare la "naked city" ovvero la New York del crimine e dei quartieri popolari degli anni 40, una luce forte e impietosa sull'altra faccia del sogno americano. Nel dopoguerra e nei mitici anni '60 il flash elettronico incominciò a essere usato dalla fotografia di moda e in quella pubblcitaria per fotografare istantaneamente e fulgidamente in studio, oltre alle modelle, i volti di personaggi e star del cinema e dello spettacolo, e oggetti da desiderare e comprare. Il flash portatile servì invece ai paparazzi per rubare e vendere ai tabloid popolari la vita di divi e delle celebrità, e ai fotografi matrimonialisti e di cerimonia (ma anche ai fotoamatori e ai reporter) per immortalare nei grandi eventi il ricordo e la memoria sociale e familiare. Ma ricordiamo anche che, più o meno negli stessi anni, il "flash di schiarita" usato da Diane Arbus nei suoi ritratti di strada, luce straniante, isolante e artificiale su un'umanità ai margini della società dei consumi. Poi arrivò nei decenni successivi l'utilizzo del flash di Bruce Gilden (e altri dopo di lui) nella fotografia di strada, ad evidenziare con il lampo energy, anxiety & strees di una vita urbana sempre più frenetica ed alienata. Infine ecco a partire dagli anni '90 la luce flash usata da fotografi-artisti come Jeff Wall, Gregory Crewdson e seguaci nei loro approcci postdocumentari, dove l'uso della luce artificiale in esterni non ha più nessuna funzione tecnico-pratica, ma unicamente estetica e concettuale, con i suoi rimandi alla fiction (teatro, televisione, cinema) e ad una società sempre più artificiale e spettacolarizzata o da altri artisti in cui la ricerca staged si sposta decisamente verso ambiti onirici, fantastici o surreali.
La luce flash quindi, inventata e utilizzata per la necessità tecnica (almeno fino all'arrivo del digitale) di illuminare e dare visibilità ad esterni notturni o interni poco illuminati, è stata utilizzata dalla fotografia documentaria e sociale e nel reportage, oppure per fotografare divi e celebrità nella costruzione di un immaginario di massa nella fotografia di moda, pubblicitaria e di gossip, ma anche da quella fotoamatoriale e di massa, per celebrare e conservare momenti importanti della vita sociale e familiare Questo tipo di luce, insomma, ha costruito nel tempo una sua estetica e una sua storia, che viaggia parallela a quella della fotografia e delle sue diverse pratiche. Il suo utilizzo oggi, nella fotografia contemporanea, sempre meno tecnicamente giustificato (almeno nella fotografia in esterni), riguarda quindi solo e unicamente precise scelte estetiche e di linguaggio, che rimandano alle sue precedenti forme storiche di utilizzo e a nuove possibilità di espressione e di ricerca nei suoi differenti ambiti.
Sostanzialmente, a mio parere, due sono le estetiche del flash che oggi si oppongono, si confrontano e sempre più spesso si confondono: quella fotorealistica che si basa sulla storia e la tradizione del suo utilizzo nella fotografia documentaria e sociale e nel reportage (ma anche nella fotografia di massa o social photography), per la quale la luce artificiale del flash finisce per assumere paradossalmente un cifra "realistica" (che fondamentalmente si basa oggi su una estetica snapshot e/o smartshot collegata quindi anche alla condivisione on line), e quella fiction (teatrale, cinematografica e televisivo/pubblicitaria) che si fonda invece sull'esperienza della fotografia professionale di moda e pubblicitaria e della cosiddetta staged photography artistica contemporanea, dove la luce artificiale fornita dal flash ha funzioni fondamentalmente opposte: ovvero viene utilizzata o in chiave di estraneazione e/o di artificio ironico-critico, oppure in funzione onirica o surreale, a seconda che la ricerca dei fotografi si focalizzi su intenti socioantropologici o si confronti col campo dell'immaginario.