Ph Sandro Bini, Florence Tourists Photo Addiction (2010) |
Una volta erano dagherrotipisti, calotipisti, semplicemente fotografi (una specie di pittori falliti come li definì in un suo famoso scritto Boudelaire), generalmente di estrazione sociale media, artigiani con qualche velleità artistica… Dopo, dal Pittorialismo in poi, ci furono e ci sono i fotografi artisti (generalmente ricchi) che si vollero e si vogliono distinguere (culturalmente e socialmente) sia dai semplici fotoamatori che dai professionisti di cui disprezzavano e disprezzano l’uso funzionale del mezzo. Con le avanguardie storiche (anni ’20 e ‘30) e le neoavangardie (anni ’60 e ‘70) arrivano gli artisti fotografi o per dirla meglio gli “artisti che usano la fotografia” che si differenziano a loro volta, non solo dai fotoamatori e dai professionisti (troppo coinvolti nelle logiche familiari e/o commerciali), ma anche dai fotografi-artisti di cui disprezzavano e disprezzano l’estetismo formale in favore di un uso politico e concettuale del medium. Ma non è ancora finita. Con il postmodernismo (anni ’80 e ‘90) appare una nuova categoria i “fotografi che usano l’arte” una formula forse che nessuno ancora ha usato, ma su cui invito a riflettere: ovvero coloro che sostanzialmente lavorano con la qualità e l’approccio tecnico dei fotografi professionisti, ma tramite l’allestimento o il citazionismo rimandano alla tradizione artistica, soprattutto ovviamente a quella pittorica e/o cinematografica. Rimangono ancora oggi e resistono, con orgoglio e speranza dura a morire, i fotografi fotografi fedeli alla missione della fotografia come “lettura del reale”, racconto e testimonianza, che vede nel passaggio della fotografia nell’ambito dell’arte una sorta di "fregatura" se non di tradimento storico e a quali non nascondo la mia simpatia e solidarietà. L’emergere storico delle categorie corporative dei fotografi sintetizza infatti la lunga emancipazione della fotografia, ovvero la dissolvenza della sua carica anarchica e antiartistica del racconto e della testimonianza del mondo nel sistema omologato del mercato dell’arte. Ma con la democratizzazione del digitale la distinzioni iniziano a sfumare, perlomeno a livello di contenitori se non di contenuti e protagonisti. Ecco allora che professionisti, fotoamatori, artisti a vario titolo, una volta rigorosamente divisi nei loro clan, si ritrovano tutti quanti insieme ai vari Festival Fotografici e sulle Riviste di Settore, perché conviene a tutti creare un unico Grande Mercato della Fotografia, anche se ovviamente con ruoli e posizioni diverse e, almeno per ora, rigorosamente gerarchiche. Gli accessi agli ambiti (hobby, professione, arte), ai suoi livelli (basso, medio, alto) e alle loro consorterie, rimangono infatti ancor oggi socialmente determinate. Gli “usi e le funzioni dell’arte media” (come diceva Bordieu in un suo famoso saggio degli anni ‘60) sono ancor oggi fondati su differenze di classe. La rivoluzione digitale non è una rivoluzione sociale (nemmeno per e fra i fotografi) ma solo un aspetto della omologazione e globalizzazione del mercato, in cui comandano i soliti loghi e le solite facce.