martedì 11 marzo 2014

L’Archivio e il Progetto: la fotografia come campo di significato aperto



Sandro Bini,  Cortile Galleria degli Uffizi, Marzo 2010

In un recente post nel suo Blog La valigia di Vang Gogh l’amico Enrico Prada suggeriva una suddivisione fra "fotografi narratori" e "fotografi poeti", i primi propensi al racconto per immagini i secondi raccoglitori rabdomantici di epifanie visive in grado di sostenersi autonomamente sia come forma che come orizzonte di senso. La suddivisone, molto suggestiva, con i suoi rimandi letterari, avrà fatto forse storcere un po’ il naso all’amico Fulvio Bortolozzo (La Camera doppia) difensore di un “primitivismo fotografico” attento soprattutto alla specificità visiva dell’immagine e alle questioni dello sguardo fotografico, ma non può che incontrare le mie simpatie, fosse altro per motivi di formazione culturale. E’ anche vero però che i "poeti" spesso pubblicano i loto testi come raccolte, per cui anche loro possono trovarsi a che fare con questioni narrative e strutturali legate alla costruzione di un portfolio, sia esso per parole o immagini, ed anche vero che alcuni fotografi (fatta salva la suddivisione pradiana con la propensione quantitativa e qualitativa su un versante o sull’altro della produzione) sono in grado di cambiare registro a seconda dei casi ed essere a volte poeti, altre narratori, oppure, ancora più spesso, dei poeti-narratori (lirici) o dei narratori-poeti (epici). Le ripartizioni come si sa hanno dei limiti, ed esistono tutta una serie di sfumature e atteggiamenti intermedi, ma è innegabile che le stesse servano a circoscrivere un campo di indagine, ovvero, in questo caso, la complessità degli atteggiamenti percettivi, psicologici, metodologici e operativi di un fotografo. Per questo motivo mi piace complicare la faccenda e aggiungere ancora un’altra ripartizione: quella fra “fotografi d’archivio” e “fotografi a progetto”. I primi sono dei raccoglitori più o meno metodici o istintivi di immagini che costruiscono le loro serie in tempi molto lunghi lavorando di cesello sul proprio archivio e costruendo a posteriori (sui materiali raccolti) i temi della loro ricerca. I secondi sono abili costruttori di serie o racconti per immagini partendo da una idea iniziale predefinita (progetto) o committenza (assignment) che sviluppano (magari anche modificandola) nel corso di tempi variabili a seconda dei casi. Ma anche in questo caso gli atteggiamenti sono alternabili, modificabili, aperti e mai definitivi. Anche le immagini di un lavoro “a progetto”, una volta archiviato, possono essere “riciclate” in un lavoro d’archivio, così come un lavoro d’archivio può divenire lo spunto di idee per nuovi progetti. Insomma le fotografie e le serie fotografiche sono campi di significato aperto: su questo il lavoro di un fotografo come Lugi Ghirri ha ancora molto da insegnarci!

mercoledì 5 marzo 2014

Rullini & Sensori: democrazia analogica e dittatura digitale



Sandro Bini, Senza Titolo 2009

Voglio ringraziare l'amico Andrea Buzzichelli per aver stimolato e condensato questo mio scritto. Il buon Andrea in un post su facebook si domanda La bufala del rullino digitale adattabile alle vecchie 35 mm gira ormai da anni . Ma perchè qualcuno non lo fa davvero? Non mi pare una cosa impossibile e neppure stupida ... anzi .." Ecco al di là delle possibilità tecniche sulle quali non sono preparato, credo in buona sostanza che i motivi siano di puro marketing come sempre accade per le questioni di mercato,  ma credo anche che questi stessi motivi possono essere lo spunto ad una piccola riflessione filosofico-politica sull’analogico e sul digitale. Mi spiego: una eventuale presenza sul mercato fotografico di un  “rullino digitale” adattabile a qualsiasi macchina di piccolo formato e magari anche a quelle analogiche (esistono solo dorsi digitali per il medio e il grande formato) costituirebbe una svolta democratica del marketing digitale che sarebbe molto gradita dal pubblico dei fotografanti analogic born ma che i produttori si guardano bene di accontentare. Fin adesso, infatti, quando acquistiamo una fotocamera digitale acquistiamo in blocco pure il sensore/cpu che è impossibile da sostituire con uno diverso da quello originale. E’ un po’ come se in era analogica fosse entrata sul mercato una fotocamera che poteva funzionare solo con pellicole della stessa marca (in realtà con la Polaroid era proprio così!). Ma a parte il caso speciale (guarda caso della fotografia istantanea) chi mai avrebbe mai comprato quel modello di fotocamera? Insomma con l’avvento della fotografia digitale è finita la democrazia analogica della funzione matrice/memoria della pellicola (perchè come sappiamo la stessa pellicola andava bene sia su una compattina che su una reflex super professionale del medesimo formato)  e inizia la dittatura del sensore unico e insostituibile. L’unica possibilità di cambiarlo è infatti con uno identico o con l’acquisto di una nuova macchina. Per i produttori ovviamente tutto bene così con un caro saluto ai nativi analogici!