lunedì 14 novembre 2011

Glasse digitali: come un eccesso di postproduzione possa rovinare un buon reportage

 Sandro Bini, Scottish Journey (2008)
Capita sempre più spesso, surfando sui web fotografici, sfogliando riviste di settore, o visitando mostre e festival, di incappare in decorosi progetti di documentazione e reportage in cui l’importanza del tema e del soggetto fotografato è spesso offuscata da una patinatura digitale più o meno alla moda che confeziona in maniera spettacolare e ammiccante la superficie dell’immagine distraendo fatalmente dal suo contenuto informativo e che normalmente finisce con l’attirare l’attenzione più superficiale di pubblico e critica. Non faccio nomi o esempi per non attirarmi antipatie, ma credo che i campioni siano sotto gli occhi di tutti. Attenzione non parlo in questo caso delle iperboli del linguaggio spesso fini a se stesse (grandangolari spinti, inquadrature forzate, mossi estetizzati), ma di stuccature, laccature, lucidature, patinature digitali, spesso affiancate da tecniche di stampa con tecnologie di avanguardia e alla moda (pigmenti, carte cotone ecc ecc) che secondo il modesto parere di chi scrive, tolgono invece di aggiungere, distraggono invece di concentrare sul livello informativo e performativo dell’immagine di cui questo tipo di fotografia dovrebbe (almeno secondo gli intenti dei “padri fondatori”) farsi portavoce. Credo insomma (è un mio parere personale e quindi ampiamente opinabile) che il formalismo neomodernista e il nuovo pittorialismo digitale non aiutino affatto questo tipo di fotografia (il discorso è ovviamente diverso per la moda e la pubblicità, dove pure molto spesso si esagera) e penso in tutta sincerità che una sobrietà ed economia dei mezzi (compreso un giusto apporto di postproduzione) possa migliorare di molto le cose. Pur non proponendo un ritorno al low fi nell’uso del medium proposto per la prima volta dagli artisti concettuali degli anni 60/70 (anch’esso del resto ampiamente estetizzato) mi permetto di suggerire almeno la pratica di una giusta misura dettata dal gusto e dalla tradizione del genere, misura che ovviamente rimane soggettiva per ogni tipo di progetto e per ogni fotografo (analogic born o digital native) e soprattutto per ogni tipo di pubblico interessato. Ma in ogni caso, a mio modesto parere, l'eccesso di postproduzione è spia non solo di una concessione del fotografo di reportage all'evidenza spettacolare della società dell'immagine, ma sopratutto il pericoloso segnale di una sfiducia rispetto alla forza di documento storico e sociale del reportage. Quando nella torta c’è troppa glassa finisce col nauseare, rovinare i denti e aumentare colesterolo e glicemia!